21 anni…e non sentirli – Matteo Ferrante / Dull Company Myself
Quando arriva negli studi di Radio Città Aperta mi dico “non è lui, forse è un suo amico”. Sto aspettando Matteo Ferrante, artista che viene dalla provincia di Latina, che da come leggo dal press kit che mi è stato inviato, ha appena 21 anni. Mi trovo di fronte un giovanotto dall’aria matura, che, man mano che l’intervista procede, mostra di avere le idee molto chiare e questo suo solido approccio all’attività compositiva trova conferma nell’ascolto del suo lavoro, di imminente uscita: “TO LOAD THE FEELING OF A TREMBLING WHISPER”, tutto concepito da lui, dalla prima fase, sino al mastering. Sono incuriosito, sia perché ho sempre guardato con simpatia chi produce musica in home studio, cercando di dare il meglio in condizioni spesso precarie (i cosiddetti studi in cameretta, sì…quelli), ma soprattutto perché l’idea di musica di Matteo parte da sonorità che mi sono care da sempre, ovvero dal dark e dalla new wave degli anni 80.
Gli chiedo inizialmente qualcosa sui suoi ascolti di riferimento e mi risponde: “Io nasco chitarrista, devo premettere. La mia principale fonte d’ispirazione sono, come hai subito notato, gli anni ’80, ma nell’accezione più generale possibile. Per quanto le influenze principali derivino da The Cure, The Sound, The Chameleon, Siouxsie and the Banshees, Cocteau Twins, non riesco a nascondere il debole per il pop di quegli anni, quelle atmosfere melliflue permeate da modulazioni e riverberi”.
E sul fronte italiano? “Anche la new wave italiana credo abbia avuto grande influenza su di me, in particolar modo i primissimi Litfiba e il Post-Punk, prima politico e reminescente del punk più veemente, poi contemplativo, dei CCCP.
Chiaramente è impossibile non dire che anche prodotti più nuovi mi abbiano ispirato: le
primissime produzioni dei Soviet Soviet e di The KVB”.
L’ascolto del disco conferma le premesse, le tracce scorrono piacevoli, caratterizzate dalla particolare timbrica della voce di Matteo, grave e profonda, che ricorda un po’ le atmosfere dei primi Japan. In particolare, sin dalla prima traccia “The Time You Spent on Your Promises” si nota come al gusto dark del post-punk classico si uniscano i ritmi più danzanti della synthwave. Quello che potrebbe sembrare un ennesimo esercizio di stile, viene invece scombinato dalla presenza delle chitarre, veri e propri squarci scintillanti e dream-pop che scuotono e ravvivano l’omogeneità tipica del revival wave.
Un genere rivisitato da cima a fondo, come nella title track omonima, che osa un ritornello pop degno dei migliori Human League e Soft Cell o la finale “Nothing Means Regression” che fonde una scrittura à la Swans/The Sound con le sognanti derive del periodo Disintegration dei miei amatissimi Cure.
Interessante progetto, che con una buona dose di autoironia, prende il nome da una citazione contenuta in un film di Ingmar Bergman (“Il settimo sigillo”), che suona come “in noiosa compagnia di me stesso”, DULL COMPANY MYSELF. Teniamolo d’occhio, questo ventunenne di Cisterna di Latina. Le sorprese potrebbero non essere finite…
Il cd uscirà il 16 aprile, il vinile seguirà. Del resto, senza vinili…che anni 80 sarebbero?
Marco Bosco
Pubblicato il: 26/03/2018 da Marco Bosco