Bruce Springsteen: 38 anni fa usciva “Born In The U.S.A.”
Well, we made a promise we swore we’d always remember
No retreat, baby, no surrender
4 giugno 1984: esce Born In The U.S.A., il settimo album di Bruce Springsteen.
Considerato il suo più grande successo commerciale, grazie ad esso il Boss entrò nell’olimpo delle rockstar planetarie della seconda metà degli anni ’80.
Il disco fu lanciato dal radiofonico Dancing in the Dark, il cui videoclip, girato da Brian De Palma, vede come protagonista una giovanissima Courteney Cox:
Tutti i 7 singoli estratti da Born In The U.S.A. sono entrati nella Top 10 di Billboard. Essi sono, in ordine cronologico: Dancing in the Dark, Cover Me, Born in the U.S.A., I’m on Fire, Glory Days, I’m Goin’ Down e My Hometown.
Cover Me è stata originariamente scritta per la dea della disco music Donna Summer:
Il tema centrale della title track, registrata originariamente in acustico per l’album Nebraska, è quello della guerra del Vietnam.
All’epoca, il repubblicano Reagan chiese di poter utilizzare questo brano per la sua campagna elettorale, ma in un’intervista alla rivista Rolling Stone del dicembre 1984, Springsteen dichiarò:
“Penso che ciò che sta succedendo ora è che la gente ha voglia di dimenticare. C’è stato il Vietnam c’è stato il Watergate, c’è stato l’Iran — siamo stati sconfitti, ci hanno fatto pressione e per finire siamo stati umiliati. Penso che la gente abbia bisogno di provare sentimenti positivi nei confronti del loro Paese. Ciò che sta accadendo ora, a mio parere, è che questo bisogno — che è una cosa bella — viene manipolato e sfruttato. Vedi la campagna elettorale di Reagan in TV: “It’s morning in America”, è mattina in America. E ti viene da dire, be’, è mattina a Pittsburgh. Non è mattina sulla 125esima Strada a New York; è mezzanotte, ed è come se ci fosse una luna nefasta in alto nel cielo. Ecco perché quando Reagan ha fatto il mio nome in New Jersey l’ho percepita come un’altra manipolazione, e ho sentito il dovere di dissociarmi dalle parole gentili del presidente”.
- (…) gli eroi piccoli del cantante sono sempre loro, in guerra per la propria dignità e per un posto nella ricerca della felicità, diritto sancito dalla Costituzione statunitense; un mito esaltato poi da quello del “sogno americano”, quell’idea che col lavoro, col talento e con l’impegno, chiunque negli U.S.A. può trovare successo, denaro e felicità e realizzarsi a pieno. Uno scenario al quale Springsteen non rinuncia, ma del quale denuncia per converso le difficoltà, i limiti, i costi sociali e, soprattutto, i dolori individuali di chi da questa corsa folle finisce schiacciato o spinto ai limiti, ma non rinuncia alla propria dignità di uomo. Rispetto a Nebraska, però, i protagonisti di Born in the U.S.A., sembrano animati da una sorta di “pessimismo storico” leopardiano, per il quale la speranza, tutto sommato, resta un’opzione possibile, piccola, sfuocata, lontana, ma vera e palpabile. Una chiave di lettura che sarà una delle ragioni del successo del disco, in anni in cui gli Stati Uniti di Reagan ricercavano sicurezza, i contorni netti e definiti della propria identità e facevano i conti con i fantasmi del Vietnam, tentando di esorcizzare quella ferita profonda. Un parallelo questo che lo stesso Reagan tentò di sfruttare a suo favore, assicurando –o millantando- di apprezzare la musica del cantante ed i valori che lo stesso inseriva nelle proprie canzoni. Tentativo al quale Springsteen non volle rispondere direttamente, limitandosi ad affermare che, probabilmente, il Presidente pur essendo un suo fan, non aveva evidentemente ascoltato Nebraska. (Metallized)
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