Beatles: i 57 anni di “Revolver”, magico capolavoro di innovazione, pop, rock e psichedeliaBut listen to the colour of your dreams
It is not leaving, it is not leaving
So play the game “Existence” to the end
Of the beginning, of the beginning
5 agosto 1966: esce nel Regno Unito Revolver, il settimo album dei Beatles, quello che sicuramente ha avuto il maggior impatto sui favolosi anni Sessanta: di quel decennio ne è stato, infatti, stupefacente glossario di fasti, speranze e ambiguità.
Prodotto da George Martin, a cui vanno i meriti per il rivoluzionario uso dello studio di registrazione come valore aggiunto, questo magico capolavoro di innovazione, rock, pop e psichedelia (originariamente doveva chiamarsi Abracadabra), non solo gettò le basi del successivo altro masterpiece beatlesiano, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ma avrebbe influenzato numerosissimi artisti e adepti sia contemporanei che degli anni a venire.
Il titolo Revolver già la dice lunga:
- una pistolettata alle convenzioni del genere, una metafora del disco che gira, ma anche un amore supremo per il reverse e i doppi sensi (come suggerisce il titolo al contrario, appunto, Rev-Lover). Passione che, pare, otterrà dei primati mica male: il primo assolo reverse nel rock è opera di Harrison… (Vice).
Revolver vide la luce in un periodo in cui i Beatles decisero di dismettere le loro vesti di animali da palcoscenico per ritirarsi concentrati e carichi di creatività negli studi di registrazione.
Con esso “i quattro scarafaggi di Liverpool” riuscirono ad amalgamare alcune delle più rivoluzionarie istanze dell’epoca, e se fino ad allora i dischi erano stati dei semplici contenitori/raccolte di singoli, dopo l’uscita di Revolver essi non furono più gli stessi: non solo nacque il concept album, inteso come opera in sé compiuta in cui tutte le canzoni contribuiscono a dare un significato nel loro insieme, spesso ruotando attorno ad un unico tema oppure sviluppando complessivamente una storia, come se ognuna di esse fosse parte di un’unica sinfonia, ma lo studio di registrazione diventò esso stesso uno strumento, grazie alla sapiente manipolazione di nastri e all’utilizzo di sovraincisioni e filtri.
Geoff Emerick, il tecnico di studio che giocò una parte rilevante nelle sonorità di Revolver, una volta affermò:
“Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi […]. Nessuno aveva mai udito niente di simile”.
A livello tecnologico gli studi di Abbey Road, all’epoca, non avevano niente a che vedere con quelli odierni, ma proprio in quanto primitivi rispetto agli standard americani, o forse proprio grazie a questa difficoltà, il team guidato da George Martin diede origine alla più alta inventiva acustica mai sperimentata in qualsiasi studio di registrazione alla fine dei sixties.
La rivoluzione attuata da questo signor disco si riflesse anche sulla copertina, anzi, tutte le copertine dei 33 giri, a partire proprio da Revolver e poi con Sgt.Pepper e Abbey Road, si trasformarono in vere e proprie opere d’arte. Nello specifico, la cover di Revolver fu realizzata dal bassista tedesco Klaus Voormann, amico amburghese dei Fab Four, che coniugò le tecniche di disegno ad inchiostro di china a quelle del collage, utilizzando le foto di Robert Whitaker in un suggestivo contrasto di bianco e nero in un periodo in cui le copertine dei dischi erano coloratissime e psichedeliche: quella copertina gli fruttò £40 e un Grammy ‘For Best Album Cover’.
La copertina di Revolver dei Beatles.
Da grande estimatrice della psichedelia quale sono, delle 14 tracce revolveriane ho scelto per voi quella di chiusura, Tomorrow never knows di John Lennon, un viaggio lisergico ispirato dalla lettura del saggio di Timothy Leary The Psychedelic Experience, ovvero la sua versione del Libro tibetano dei morti. Dal punto di vista musicale, Tomorrow never knows ha un solo accordo, nastri ripetuti in loop, il folgorante assolo di McCartney mandato al contrario e soprattutto la voce stralunata di Lennon, incisa come se il Dalai Lama cantasse dalla cima della montagna più alta.
“Per ‘Tomorrow Never Knows’ (John, ndr.) voleva che la sua voce risuonasse come se si trattasse di cantici del Dalai Lama declamati dalla cima di una collina. Gli dissi: ‘Temo che sia un pochino costoso andare fino in Tibet, non potremmo farlo qui?” (George Martin)
Seguono tre video: nel primo vi è la versione originale di Tomorrow Never Knows, nel secondo i Beatles raccontano il making of del brano, e nel terzo i Chemical Brothers ne fanno una stupenda versione in Setting Sun con alla voce Noel Gallagher, che usò una vecchia canzone degli Oasis, Comin ‘on Strong, come base per il testo.
Pubblicato il: 04/08/2023 da Skatèna