“Tutti morimmo a stento”, il viaggio nella desolazione umana di Fabrizio De André
Ho licenziato Dio
Gettato via un amore
Per costruirmi il vuoto
Nell’anima e nel cuore
di Skatèna
3 settembre 1968: esce per la Bluebell Records Tutti morimmo a stento (sottotitolo Cantata in si minore per solo, coro e orchestra), il secondo album d’inediti di Fabrizio De André.
Influenzato dal prog e caratterizzato da atmosfere cupe e desolate, questo concept album (tra l’altro uno dei primi in Italia) tratta principalmente dell’emarginazione e della morte psicologico-morale dell’individuo, attraverso la presentazione di personaggi come tossici, ragazzine traviate, impiccati.
- “Tutti Morimmo A Stento” è un viaggio in un girone dantesco della desolazione umana, tra drogati, condannati a morte, fanciulle traviate, orchi e bambini sconvolti. Un viaggio ossessionato e ossessionante, accompagnato dalle note di un’orchestra sinfonica diretta da Giampiero Reverberi. (ondarock.it)
Il disco fu ispirato dall’ascolto di Days of Future Passed dei Moody Blues, realizzato insieme alla London Symphony Orchestra, e divenne un bestseller in Italia nel 1968 (seguito dal suo Volume I del 1967).
Dell’album ho scelto per voi Cantico dei drogati, la prima track del lato A, scritta da De André assieme al suo grande amico e poeta anarchico Riccardo Mannerini, morto suicida a Genova nel 1980 (musicalmente, l’introduzione è di Gian Piero Reverberi).
Il testo del Cantico dei drogati si ispira alla poesia “Eroina” di Mannerini, che qui riporto:
Come potrò dire
a mia madre
che ho paura?
La vita,
il domani,
il dopodomani
e le altre albe
mi troveranno
a tremare
mentre
nel mio cervello
l’ottovolante della critica
ha rotto i freni
e il personale
è ubriaco.
Ho paura,
tanta paura,
e non c’è nascondiglio possibile
o rifugio sicuro.
Ho licenziato
Iddio
e buttato via una donna.
La mia patria
è come la mia intelligenza:
esiste, ma non la conosco.
Ho voluto
il vuoto.
Ho fatto
il vuoto.
Sono solo
e ho freddo
e gli altri nudi
ridono forte
mentre io striscio
verso un fuoco che non mi scalda.
Guardo avvilito
questo deserto
di grattacieli
e attonito
vedo sfilare
milioni di esseri di vetro.
Come potrò
dire a mia madre
che ho paura?
La vita,
il suo motivo,
e il cielo
e la terra
io non posso raggiungerli
e toccare…
Sono sospeso a un filo
che non esiste
e vivo la mia morte
come un anticipo terribile.
Mi è stato concesso
di non portare addosso
vermi
o lezzi o rosari.
Ho barattato
con una maledizione
vecchia ma in buono stato.
Fu un errore.
Non desto nemmeno
più la pietà
di una vergine e non posso
godere il dolore
di chi mi amava.
Se urlo chi sono,
dalla mia gola
escono deformati e trasformati
i suoni che vengono sentiti
come comuni discorsi.
Se scrivo il mio terrore,
chi lo legge teme di rivelarsi e fugge
per ritornare dopo aver comprato
del coraggio.
Solo quando
scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
avrò un premio.
Sarò citato
di monito a coloro
che credono sia divertente
giocare a palla
col proprio cervello
riuscendo a lanciarlo
oltre la riga
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Insegnami,
tu che mi ascolti,
un alfabeto diverso
da quello della mia vigliaccheria.
- La poesia di Mannerini, dunque, tratta del tema piuttosto spinoso e molto concreto della dipendenza da sostanze stupefacenti. Il discorso è ovviamente estendibile a qualsiasi “droga”, in senso meno stretto, che genera assuefazione. Il testo è molto preciso nella descrizione degli effetti surreali (non solo fisici, ma anche emotivi come il senso di profonda solitudine esistenziale che coglie il tossicomane, la paura e il senso di vergogna nel rivelare agli altri la propria condizione, la insolita e inaspettata consapevolezza di vivere una situazione di forte dipendenza e drammaticità) derivanti dall’assunzione di sostanze che alterano la normale percezione della realtà e rivela la grande lucidità di Mannerini, come anche il coraggio di affrontare tematiche scabrose, piuttosto prosaiche, con un linguaggio asciutto e crudo, decisamente consono all’argomento. (accendiamo-le-idee.blogspot.com).
“Abbiamo scritto insieme il Cantico dei Drogati, che per me, che ero totalmente dipendente dall’alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. È una reazione frequente tra i drogati quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all’alcool la fantasia viaggiava sbrigliatissima.” (Fabrizio De Andrè, 1992, durante un’intervista per Il Mucchio Selvaggio).
Pubblicato il: 03/09/2019 da Skatèna