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VALORI IN CORSO (REPLICA) con LUDOVICA VALORI

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VALORI IN CORSO (REPLICA) con LUDOVICA VALORI

Edoardo De Angelis racconta la storia di “Lella”

Edoardo De Angelis racconta la storia di “Lella”

“Perché un uomo non è niente

Se non porta nel suo cuore

La ricchezza degli amici

E le ragioni dell’amore”

di Skatèna

Edoardo De Angelis, uno dei grandi protagonisti della canzone d’autore italiana, che pochi giorni fa si è esibito a Palazzo Rospigliosi di Zagarolo (RM), dall’inizio degli anni Settanta, epoca d’oro del Folkstudio e del cantautorato italiano, ha scritto per sé e per altri, prodotto diversi album di artisti nascenti che si sarebbero poi affermati (Francesco De Gregori) e altri nel pieno della maturità artistica (l’indimenticabile Sergio Endrigo), credendo fortemente nella diffusione dello scrivere e interpretare la canzone come strumento principe della narrazione. Di questo suo amore per la canzone come forma d’arte, De Angelis ha disseminato il suo più che quarantennale cammino, iniziato avvicinando i propri testi alle musiche di Lucio Dalla (Sulla rotta di Cristoforo Colombo), e regalando la storia de La casa di Hilde alla sensibilità di Francesco De Gregori, fino all’incisione di Lella, simile a una scena in bianco e nero di pasoliniana memoria. (fonte: edoardodeangelis.it)

Di seguito, il videoclip So’ stato io – Lella 50 anni dopo, un inedito live set in cui i due autori della celebre canzone, Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Palli, ricantano insieme Lella per la prima volta in un video a 50 anni dalla sua nascita.

Lella, pubblicata la prima volta nel 1971, con il tempo è diventata un vero classico della canzone italiana, ed è stata incisa da molti artisti, ottenendo un rinnovato successo nel 1974 nell’interpretazione della Schola Cantorum, ensemble musicale di cui lo stesso Edoardo ha fatto parte.

Qui sotto, è lo stesso cantautore romano che ci parla della storia di Lella; in calce al suo racconto, un estratto da un suo libro in cui racconta anche l’esperienza indimenticabile del Folkstudio.

LA STORIA DI LELLA

Era il 1969. Ero iscritto alla Facoltà di Lettere, a Roma, interno all’Istituto di Etnologia. Continuavo a studiare (!?!?) però in compagnia di un ex compagno di liceo, Stelio, con il quale, da qualche anno, avevo iniziato a suonare la chitarra; Stelio era più bravo di me, suonava meglio e da più tempo, ma io ero più portato a scrivere i testi delle canzoni. Un pomeriggio Stelio mi fece ascoltare una canzone di Joan BaezSaigon bride, e alle modalità armoniche di quella si ispirò per comporre una nuova linea musicale, certamente riferita ai nostri modelli country/folk … ascoltavamo Dylan, e i primi dischi di Simon & Garfunkel. Il tema era stimolante, ma lì per lì, al momento, non arrivò alcuna idea per il testo. Qualche giorno dopo, sempre con quella musica in testa, ero a bordo di un autobus che mi portava a pranzo da mia nonna Maddalena (Nena) all’altro capo della città. Passando a Piazza Barberini, notai l’insegna di un negozio di cravatte: “Proietti“. Un cognome tipicamente romano. Fui preso da quel meraviglioso stato d’animo che precede una creazione: una tenaglia che ti stringe anima e corpo, fino a quando l’opera non è compiuta. Le parole della storia arrivavano da sole, una dopo l’altra, senza vera consapevolezza. Sceso alla mia fermata, continuavo a farneticare, verso dopo verso, immagine dopo immagine, le strofe si sovrapponevano, arrivavano come barche trascinate dalla corrente. Arrivai a casa di mia nonna, e subito telefonai a Stelio, dettandogli il fiume in piena. Lui mise ordine, ci ragionò, mi richiamo, e continuammo la canzone per telefono, davanti agli occhi stupiti di mia nonna.
Era nata così Lella, quasi cinquant’anni fa… la nostra prima canzone che sarebbe stata pubblicata.

La storia, mia e di Lella, è raccontata in un libro, un libro di avventure, che sta per esser ri-pubblicato con un aggiornamento temporale riguardante questi ultimi dieci anni. Ne riporto qui di seguito uno stralcio:

… Per consentire alla mia povera tecnica musicale di elevarsi a un rango leggermente superiore, furono determinanti due avvenimenti: la forte attrattiva per la nuova musica che girava intorno, e l’intervento di Stelio, compagno delle elementari, delle medie, del ginnasio e del liceo. La curiosità per Brassens, Brel, Dylan, Baez, Simon & Garfunkel, De André, Endrigo, Tenco, non impiegò molto a trasformarsi in autentico amore eterno. Stelio era cresciuto in una famiglia di assidui e allegri dilettanti della musica, ed era molto più avanti di me con la chitarra: avvicinava canzoni più difficili, utilizzava accordi più intriganti. Appena fuori dal Liceo – Giurisprudenza lui, Lettere io – tra noi si era subito creata una società musicale di fatto. I nostri caratteri, lontani fino a risultare opposti, si compendiavano a meraviglia, così come le nostre voci: tanto ruvido, ironico, dissacrante lui, quanto io sentimentale, profondamente romantico, introspettivo.
Arrivò così la primavera del ’68, e con quel periodo pieno di vita e di fermenti, la mia prima esperienza di palco e pubblico. Il passaggio storico richiedeva di prendere posizioni precise, e io mi sentivo pronto a farlo. Era tempo di elezioni, e alcuni amici già impegnati politicamente mi avevano chiesto di comporre alcune canzoni per uno spettacolo di cabaret che stavano scrivendo, Il Manicomizio. E mi convinsero a partecipare: ci voleva qualcuno che avesse anche il coraggio di cantarle, quelle canzoni … e chi meglio di me poteva impersonare un medico del manicomio, camice bianco e calzoni del pigiama, parruccone biondo e chitarra, che cantava contro il sistema?
… Se il colore rosso voi volete scordar/ Non vi bastan le bombe/ Macchine infernali voi potete trovar/ Per riempire le tombe … Per quei giochi strani che piacciono al caso, Il Manicomizio venne replicato in un locale di Trastevere, il Cordino, che pochi anni dopo sarebbe diventato la nuova sede del Folkstudio, una volta sfrattato dalle vicine e ormai storiche mura di via Garibaldi. Gli altri componenti della compagnia erano dilettanti come me, con la sola eccezione di Margherita Puratich, un’impalpabile – voglio qui evitare facili doppi sensi – attrice argentina, alla quale il regista si sforzava di far intonare canzoni napoletane della tradizione: ma l’ho già detto, la vicenda era ambientata in un manicomio.
Altro compagno di lavoro, decisivo artefice del successo dello spettacolo, fu un giovane impiegato della società telefonica, di nome Gianfranco D’Angelo. La sua mimica, la prontezza delle battute fuori copione, spesso improvvisate, davano ritmo e originalità vincenti. Si poteva facilmente intuire che la compagnia telefonica avrebbe presto perduto uno dei suoi uomini più divertenti. Dopo gli applausi finali, il pubblico mi chiedeva generalmente di fermarmi a cantare qualche altra canzone. Il piccolo show supplementare era forse un po’ primitivo, ma a suo modo efficace, e si avvaleva in qualche occasione della partecipazione di Stelio. Il passa parola che si mise in moto riguardo alle nostre performance, ci permise di allargare il giro, e di far ascoltare le nostre canzoni in altri locali di Capitale e dintorni. Certo, l’inserimento nelle programmazioni dei piccoli locali e dei cabaret era spesso avventuroso, e dovuto alla tenace iniziativa di alcuni personaggi che costituivano il fermento positivo nelle scene romane di secondo livello. Un ricordo affettuoso lo devo a Marcello Casco, impiegato italo-egiziano dell’Air France, e incontenibile artista in pectore, oltre che vivacissimo manager dilettante. Solo in parte la buona volontà e la fatica di allestire piccoli spettacoli, per sé e per altri, vennero ricompensati dalla sorte. Qualcuno ricorderà il figlio di Menuel, suo divertente personaggio radiofonico, e il locale romano Al Fellini, che ebbe fortuna negli anni ’80. Io personalmente posso vantarmi di aver scambiato con lui stima professionale e affetto, e di averlo visto all’opera, insieme a buona parte della sua famiglia, in abiti da clown, quelli che forse preferiva.
Arrivò così, l’anno successivo, il battesimo al Folkstudio, riconosciuto oggi dalla storia come il mitico altare della patria dei cantautori fioriti a Roma intorno al ’68 e negli anni immediatamente successivi. 
 Nella realtà di allora si trattava di un cantinone volutamente polveroso, all’avanguardia nel proporre ogni sera le novità musicali più ardite e controverse, che non trovavano spazio in radio e in televisione, né in altri luoghi: jazz, musica popolare, e un po’ di canzone d’autore, condite da un bicchierone di sangria, tutto compreso nel poco prezzo.  Titolari del Folkstudio erano Harold Bradley e Giancarlo Cesaroni. Il primo era, ed è, un imponente cantante nero di blues e gospel – “Irene good night, Irene good night”, cantava il suo cavallo di battaglia – e anche affermato pittore; il secondo, burbero e bonario padre adottivo delle nostre prime esperienze musicali, era un chimico con la passione dei cavalli, del whisky, del jazz, del blues e della musica folk. Con la sua scomparsa, avvenuta nel gennaio del ’98, l’ambiente culturale della musica può dire di aver subito un vero lutto.  Ai cantautori in un primo tempo non veniva concesso grande credito. Giancarlo forse non li considerava abbastanza alternativi, ma la porta dello storico locale di via Garibaldi era democraticamente aperta a tutti. Fu così che vi entrai anch’io, stavolta in veste di artista (come spettatore pagante lo frequentavo già da un paio d’anni), ancora una volta assieme a Stelio, l’amico, compagno, collega e coautore. Più esperto con la chitarra, Stelio si occupava della parte musicale, mentre i testi erano affidati alla mia penna, con la clausola fissa di un abituale controllo incrociato.  Tutto poi si confondeva tra scherzi, buontempo, bottiglie di vino spesso mediocre e scorribande notturne, in quel meraviglioso antipasto della professione che corrispondeva alla nostra condizione di apprendisti dilettanti. Lo dice la parola stessa: il dilettante si diletta, si diverte, affronta le cose con leggerezza, con casualità, stretto solo dalla santa ispirazione, dalla beata sintesi del visto, del letto e del vissuto, del sognato, dell’imparato. Niente contratti, niente scadenze, pura e libera espressione.  In questo piacevole clima nascevano le prime canzoni con gambe robuste, adatte a un lungo cammino. Così fu anche per “Lella”. Chi direbbe, ascoltandola oggi, “Te la ricordi Lella, quella ricca?”, che si tratta d’una bella cinquantenne? Era la primavera del ’69 quando Stelio mi propose una strofa di sapore folk americano, forse vicina, nel giro di accordi, a una canzone di Joan Baez. La libertà e la fantasia del dilettante scrissero di getto il testo: non pensato, non ispirato a una vera storia di cronaca. Me lo trovai germogliato, così com’è, in un improbabile gergo romanesco che da parte dei cultori del dialetto non mi è stato mai perdonato. Una storia popolare, forte, pasoliniana o gaddiana, come qualche anno dopo scrissero i giornali, nata senza calcoli né riferimenti. Mi salì al cuore e alla mente in autobus, mentre me ne andavo a pranzo a casa della mia adorata Nonna Nena. In fretta la proposi a un foglio bianco, e subito dopo, per telefono, a Stelio. Ci accorgemmo di averla fatta grossa solo più tardi, guardando la faccia degli amici ai primi ascolti.  Attendevamo con ansia la prova del Folkstudio. Come sempre all’ingresso ci accoglieva il sorriso dolce e buono di Gabriella, una ragazza emiliana che fungeva da cassiera e da barista, e con discrezione si accompagnava a Cesaroni. Sfido chiunque a non avergliela mai invidiata. Dietro una pesante tela di sacco, si nascondevano, assieme, il paradiso e l’inferno: la sala era stretta e lunga, il pubblico qualificato e silenzioso, costituito da un centinaio di anonimi quanto inflessibili critici. Ascoltavano attenti, e non perdevano occasione, a fine brano, per comunicare il proprio giudizio, sia nel bene che nel male. La nostra “Lella” raccolse sin dalla prima uscita consensi addirittura sorprendenti. Solo una volta, tra le molte che risuonò dal palco di via Garibaldi, accadde un fatto curioso ma, a ripensarci, figlio di quei tempi. Alla fine della canzone, mentre il pubblico applaudiva convinto, uno spettatore alto di statura si alzò in piedi tuonando: “Che cazzo applaudite, questa canzone non è abbastanza politica!”. La voce e l’ammonimento erano di Ernesto Bassignano, forse il primo cantautore battezzato dal Folkstudio, artista allora del tutto politicizzato, divenuto poi fantasioso conduttore del fortunato programma radiofonico “Ho perso il trend”.

(da La gara dei sogni)

Pubblicato il: 29/12/2019 da Skatèna