In ricordo di David Bowie
di Simone Maurovich
Ricordo ancora quel giorno di quattro anni fa.
Quel 10 gennaio 2016.
Un fulmine a ciel sereno, come quello disegnato sulla copertina di “Aladdin Sane”.
Voci si rincorrevano affannosamente ma nessuno voleva crederci; lui, proprio lui non c’era più.
Incredulità e sgomento vennero ben presto sostituiti da tristezza e un senso di vuoto incolmabile.
L’uomo che cadde sulla terra, Ziggy Stardust, il Re degli gnomi Jareth, il Duca Bianco, David Bowie era morto.
Ancora oggi ho un brivido se ripenso a quella mattinata. Il telefono impazzito, i gruppi di WhatsApp illuminati come in un giorno di festa. Un messaggio però catturò la mia attenzione, come un triste presagio. Ascoltai la voce di Valerio, un mio carissimo amico, che annunciava in maniera sibillina: “Te lo dico io, prima che tu lo venga a scoprire da qualcun altro. È morto Bowie, e siamo tutti più soli”.
Da quel momento piansi, tanto, come si fa per un parente stretto. Perché David, nella sua istrionicità, era riuscito ad entrare nel cuore di tutti e quando il suo si fermò per sempre è come se avessero strappato ad ognuno di noi una parte essenziale del proprio essere.
Due giorni prima della sua morte ecco che esce, forse come testamento (ma questo non lo sapremo mai), “Blackstar”, ultima pietra di una carriera al di sopra di ogni immaginazione. Nessuno avrebbe mai osato pensare a ciò che sarebbe potuto accadere soltanto 48 ore dopo.
Ed è forse l’ultima immagine di quel video a fare più male di un cazzotto allo stomaco: l’inquadratura che si allarga su un castello in rovina, proprio quello (o davvero molto simile ad esso) che avevamo visto invece scintillante e splendente in “Labyrinth”.
Sono passati quattro anni ma fa male ancora come il primo giorno.
Ci manchi David.
(Londra, 8 gennaio 1947 – New York, 10 gennaio 2016)