“Americà, facce Tarzan” – Perchè dobbiamo cambiare atteggiamento quando parliamo di lavoro nello spettacolo [Intervista ad Ascanio Celestini]
di Valentino De Luca
Durante una delle sue ultime apparizioni in epoca di lockdown, il Premier Conte ha fatto un fugace accenno alla cultura ed ai lavoratori che ogni giorno cercano di riempire di significato questa parola, definendoli “gli artisti che ci fanno tanto divertire“.
Numerosi mal di pancia si sono scatenati per questa definizione perchè a diversi commentatori tale atteggiamento delle Istituzioni, che Conte in quel momento rappresentava, verso gli operatori dello Spettacolo ha ricordato quel ragazzino biondo che in “Un americano a Roma” urlava ad un Alberto Sordi immerso nella marana: “Americà, facce Tarzan“.
Mal di pancia che si sono poi rinnovati qualche settimana più tardi, quando durante gli incontri degli Stati Generali a Villa Pamphilj, alcuni attori e cantanti famosi in collegamento da casa si sono esibiti per il Governo, chi leggendo la “Divina Commedia”, chi cantando i propri cavalli di battaglia.
Purtroppo però, come per parlare di lavoro nelle fabbriche ai tavoli istituzionali non deve sedere il singolo operaio, ma chi è delegato a rappresentarli tutti ed ha le competenze culturali e giuridiche per avviare una contrattazione, così per lo Spettacolo (cinema, arte, teatro, cultura, maestranze…) numerosi addetti ai lavori hanno capito poco il senso di invitare attori o performers sicuramente conosciuti a livello nazionale, ma poco rappresentativi dell’intera categoria.
La verità è che il Covid-19 e il conseguente blocco degli spettacoli, ha fatto emergere i decennali limiti strutturali e di mentalità di questo Settore.
Il mondo dello spettacolo ha bisogno di un riconoscimento ufficiale, di uscire dal sommerso del precariato e del nero, di assurgere dignitosamente a lavoro regolarmente retribuito e con i relativi contributi, a trovare uno spazio nel mondo della scuola e dell’Università come materia didattica e laboratorio di apprendimento.
Il lavoro nello Spettacolo è arte, cultura, ma soprattutto lavoro e in quanto tale deve avere un posto riservato permanente nel dibattito politico, nell’agenda economica di questo Paese.
Posto (come ce l’ha il lavoro nelle fabbriche e nelle aziende).
Riservato (non deve essere confuso con altri lavori o avere fugaci accenni quando si sta parlando di cultura in generale o di musei o di turismo. Deve essere uno spazio con carattere di esclusività).
Permanente (non deve essere solo legato allo stato di emergenza da Coronavirus).
Quando si parla di spettacolo si parla di centinaia di piccole realtà teatrali, di migliaia di artisti di strada o circensi, di parrucchieri, sarte, costumisti, tecnici di luci e suono, scenografi, insomma le cosiddette “maestranze“.
Avere la percezione e l’atteggiamento di stare parlando a persone che in fondo non lavorano perchè campano d’arte, come ad eterni Peter Pan che vivono d’aria o che hanno messo in conto a qualsiasi età la vita del boehemien “perchè sennò si sarebbero scelti un più sicuro posto da ragioniere o da cassiera” è infantilizzare e screditare un intero settore, banalizzando il dibattito.
A L’Ottavo Giorno, la trasmissione di approfondimento informativo, slow news e cultura di Radio Città Aperta, ne ho parlato con Ascanio Celestini, che da tempo dà voce alle istanze dei lavoratori del mondo dello spettacolo.
ASCOLTA IL PODCAST DELL’INTERVISTA