Traccia corrente

Selezioni musicali

RCA - Radio città aperta

Selezioni musicali

Ricordando CHESTER BENNINGTON

Ricordando CHESTER BENNINGTON

di Davide Calcabrina

 

CHESTER BENNINGTON

Nascita: 20 marzo 1976, Phoenix, Arizona, Stati Uniti
Decesso: 20 luglio 2017, Palos Verdes Estates, California, Stati Uniti

La Phoenix degli anni 90 non era poi così diversa da tante altre grandi e medie città degli Stati Uniti, così come non lo era il suo tessuto sociale periferico.
Nelle radio era il rock più introspettivo tipico del grunge a farla da padrone, i sopravvissuti alla generazione di “Arancia Meccanica” avrebbero fatto presto i conti con gli spettri narrati da Irvine Welsh in “Trainspotting”, in un continuum di mal di vivere ed autodistruzione.
Le battle rap riempivano garage e cantine quando il genere era un canto di rivolta prima ancora che il contesto musicale dell’eterna faida West vs East coast.

Chester Bennington era figlio di tutto questo, legittimo quanto atipico.
Amava i Nirvana, gli Alice in Chains i Pearl Jam e scriveva pensieri e riflessioni su qualsiasi foglio avesse tra le mani così come facevano e hanno sempre fatto i rapper, tesi a trasformare idee in rime.

Da bambino Chester era magro, basso ed esile ma aveva due polmoni incredibili e un cuore enorme che sarebbe bastato per due; per il padre, Lee Bennington, avrebbe potuto diventare un atleta: “correva come nessun altro alla sua età, era una freccia sulla pista d’atletica”.
Ma questo è un futuro che il destino riserva ai suoi figli più fortunati e per quanto possa sembrare difficile da credere, Chester non fu tra questi.

Fin da prima della pubertà fu vittima di bullismo, su di lui si scagliò la rabbia e la viltà di alcuni adolescenti del suo quartiere. Ma non è tutto. Fu vittima di abusi sessuali. La violenza psicologica subita da un ragazzo più grande si trasformò ben presto in violenza fisica e poi in molestia sessuale. Un incubo lungo circa cinque anni, fu questo il lascia passare per l’adolescenza che il destino ebbe in serbo per lui.

Nonostante tutto, appariva come un adolescente tranquillo, a prima vista felice. Un po’ strano, per carità, capelli lunghi, scheletrico, musica sparata dalle cuffie del suo walkman, introverso a primo impatto. Oggi lo definiremmo nerd ma trent’anni fa, esserlo, non era poi così figo.
Gli anni del liceo furono gli anni in cui la sua passione prese forma. Aveva una voce potente già da piccolo, qualcosa di più unico che raro. Quei polmoni non erano solo da centometrista, supportarono un talento che già a quattordici anni gli fece ottenere il primo riconoscimento, vinse un festival canoro durante il suo primo anno di liceo.
Gli anni della high school furono gli anni in cui investì sui suoi sogni. Voleva diventare una rockstar, non avrebbe mollato il suo sogno per nessun motivo al mondo.
Incontrò Sean Dowdell, fondarono i Grey Daze, con i quali suonò praticamente in ogni pub, locale e club di Phoenix e dintorni.

Dall’Arizona alla California la strada è breve, molto più corta di quella che porta al successo, metaforicamente più corta anche di quella che lo portò ai Linkin Park o meglio, a conoscere i fondatori dei Super Xero con i quali, a fine anni novanta, diede vita ai Linkin Park e alla primogenitura di “Hibrid Theory”, uno dei dischi d’esordio più venduti della storia della musica.

Creatività, talento e genio, ma anche un ragazzo segnato profondamente dai suoi drammi personali e famigliari. L’aspetto più intimo del suo malessere lo portò ad abusare di alcol e droga, una lenta autodistruzione che viaggiava di paripasso con la capacità taumaturgica della sua arte.
Sapeva ciò di cui cantava e sapeva come farlo arrivare ai suoi fans, migliaia di ragazzi hanno trovato nella sua musica la forza per combattere le proprie battaglie, per riprendersi da percorsi sbagliati, per dare un senso alle loro vite, proprio mentre il mal di vivere di Chester lo divorava dall’interno.
Era semplicemente catarsi per chi lo amava e gli veniva incredibilmente naturale.

Chris Cornell, frontman dei Soundgarden e degli Audioslave, fu uno dei suoi più grandi amici. Una simbiosi umana e artistica, una fratellanza più potente del sangue.
Molti gli impegni nel sociale intrapresi dai due in anni in cui Chester aveva battuto la tossicodipendenza ma mai, o comunque non completamente, l’alcolismo.

Nel 2017, anno della sua morte, esce “One More Light”… a pensarci ora, come non definirla una sorta di testamento?
La traccia di apertura si intitola “Nobody can save me” e la title track inizia così: “If they say
Who cares if one more light goes out?
In a sky of a million stars
It flickers, flickers
Who cares when someone’s time runs out?
If a moment is all we are
We’re quicker, quicker
Who cares if one more light goes out?
Well I do
The reminders pull the floor from your feet
In the kitchen, one more chair than you need oh
And you’re angry, and you should be, it’s not fair
Just ‘cause you can’t see it, doesn’t mean it, isn’t there”

Talinda Bennington, moglie di Chester, dichiarò che il frontman dei Linkin Park era affetto da una grave forma di depressione che raggiunse il suo culmine con la morte dell’amico Chris Cornell, anch’egli suicida nel marzo del 2017, evento che segnò il punto di non ritorno nella psiche di Chester Bennington che proprio il 20 luglio, giorno che sarebbe stato il compleanno di Chris Cornell, decise di togliersi la vita nello stesso identico modo.

I suoi demoni non lo hanno mai lasciato, il canto non fu mai uno strumento per esorcizzarli, non per un empatico come lui, con la sua arte li faceva tornare a galla per combatterli ma quando la lotta è contro sé stessi, anche qualora la si vincesse, potremmo essere comunque noi a morire.

Pubblicato il: 20/07/2020 da Davide Calcabrina