Current track

TALKIN'LOUD CON ALESSIO RAMACCIONI e FEDERICA PIETRA

RCA - Radio città aperta

TALKIN'LOUD CON ALESSIO RAMACCIONI e FEDERICA PIETRA

Il linguaggio transfobico e la doppia uccisione di Maria Paola

Il linguaggio transfobico e la doppia uccisione di Maria Paola

I mezzi di comunicazione hanno immense responsabilità nella discriminazione delle persone trans e di tutte quelle appartenenti alla comunità LGBTIQ+. Il recente caso di Maria Paola, la giovane uccisa in Campania perchè fidanzata con un ragazzo trans, ne è solo l’ennesima prova.

21/09/2020 – di Thais Palermo Buti

Giorni fa, ho letto su Leggilo, un sito di gossip e cronaca nera e politica per il quale ho iniziato a scrivere di recente, il titolo di un articolo che mi ha fatto molto incuriosire. Di una ragazza omosessuale morta a Napoli, per cui la sinistra doveva educare gli italiani alla tolleranza. Non capendo di cosa si trattasse e cosa avesse a che fare una ragazza lesbica morta a Napoli con l’educazione degli italiani da parte della sinistra, sono andata a leggere l’articolo. Ho scoperto allora che si raccontava la storia di Maria Paola, la giovane di Caivano che era stata spinta dal motorino dal fratello perché fidanzata con Ciro, un ragazzo trans. Però il modo come la si raccontava, a partire dalla scelta di riferirsi a Ciro come “Cira, la compagna di Maria Paola”, o alla stessa Maria Paola come una “ragazza omosessuale”, mi ha lasciata a bocca aperta. Ho fatto notare al direttore della testata che il titolo, la designazione al femminile data a Ciro, e l’omosessualità attribuita a Maria Paola, erano contrari alle rivendicazioni delle comunità e degli attivisti LGBTIQ+ di tutto il mondo. Sono stata allora invitata a scrivere un articolo per controbattere quello iniziale, dove avrei esposto tutte le ragioni del mio dissenso. È stata una scelta corretta e coraggiosa da parte del direttore, e ieri il mio articolo è stato pubblicato nella rubrica Controleggilo, dedicata alle opinioni che divergono dai testi pubblicati sul sito. Purtroppo però la rubrica non compare sulla pagina iniziale di Leggilo nella sua versione per il desktop, e sembra che su nessun’altra sezione. Quindi, per individuare gli articoli di Controleggilo ci vorrebbe una ricerca mirata nel motore di ricerca interno. Ho le mie ragioni per credere che non tutti i lettori sarebbero inclini a cercare parole come “transfobia”, “omofobia” o “disinformazione”, quindi ancor più di prima mi sembra doveroso portare sulle pagine di Radio Città Aperta la questione che ho già sollevato in quell’articolo: il problema vergognoso che esiste in Italia della disinformazione, della omofobia, e della transfobia, costantemente alimentate dalla stampa.

Il mondo dei clickbait, ovvero di quei siti che basano la loro esistenza sul traffico che riescono a creare – e parliamo non solo dei duri e puri della cronaca ma anche di Repubblica, Corriere della Sera, la Stampa, e tutti quei giganti di una volta che oggi sono costellati da foto e video di gatti, cani e porci – attribuisce un’importanza trascendentale al titolo di un articolo. Anche i “giganti di una volta” lo sapevano e non per caso affidavano (non so se affidino ancora, ma per le testate online credo di no) l’infausto lavoro della scelta di un titolo a una specifica figura professionale: il titolista. Ma il titolista ora sono per lo più i redattori a cottimo che, pur di annunciare la discesa di Cristo sulla terra – che poi si rivela un palloncino sgonfiato – sono pronti a calpestare i diritti, la dignità, la vita di qualunque persona o gruppo di persone che abbia la sfortuna di capitarglisi davanti. La guerra dei titoli per accaparrarsi il maggior numero di click possibili potrebbe essere alla base di malintesi e delle apparenti incongruenze che scorgiamo tutti i giorni sulle notizie dei siti più disparati. Compresa quella che raccontava la morte di Maria Paola. Ma in questo caso specifico non è di sicuro la ragione principale. Altrimenti non si spiegherebbe perché, come è stato fatto notare da un articolo di The Vision, la maggior parte dei giornali abbia parlato di Ciro al femminile, non riconoscendo, di fatto, l’identità acquisita dal ragazzo. E uccidendo quindi, per la seconda volta, la sua fidanzata, a cui è stata sottratta la possibilità di essere pubblicamente quello che era nel privato: una donna etero con un uomo trans.

Ricostruendo il rocambolesco quanto ingiustificabile percorso di media italiani, Giuseppe Porrovecchio, autore dell’articolo su Vision, ha scritto: “in primis l’Ansa, la più importante agenzia di stampa italiana, e poi il Corriere, la Repubblica, il Mattino, il Messaggero, SkyTg24, News24, il Giornale di Sicilia. Nelle loro ricostruzioni la coppia era formata da ‘due amiche’ che ‘avevano una relazione LGBT’. Ciro è stato poi trasformato in ‘un’amica che da un po’ di tempo si fa chiamare al maschile’ e al Tg1 e al Tg2 è stato appellato col nome di ‘Cira’. Quando va bene Ciro è semplicemente ‘un trans’”.

Mi correggo. Più che rocambolesco il percorso dei media è indecente. Anche se molti hanno poi malamente riparato l’errore sui siti online, il danno era già fatto. E non è divertente. Dopo anni di lotte dei collettivi LGBTIQ+ e, finalmente di una presenza sempre maggiore sulla stampa dei temi legati all’identità di genere, questo errore non può più essere giustificato, se non da un inguaribile pregiudizio. Non da un’inguaribile ignoranza, che per essere sconfitta richiederebbe solo un po’ di studio. E l’errore ha un nome: misgendering, termine con cui si parla di una persona transessuale utilizzando gli articoli, le desinenze e i pronomi non corrispondenti alla sua identità di genere.

Il misgendering è così grave perché va a toccare uno dei punti nevralgici delle battaglie delle persone trans: la rivendicazione di un’identità, e il diritto ad esistere, vedendosi riconosciuta e legittimata da tutta la società questa identità. Il diritto ad esistere di una persona trans non è una rivendicazione personale o che riguarda solo la sua sfera privata, perché il riconoscimento del diritto ad un’identità – a partire, banalmente, dal riconoscimento di un nome sociale di genere diverso da quello biologico – è il punto di partenza per la conquista di tutta una serie di altri diritti che devono puntare alla riduzione dell’immensa discriminazione che esiste nei confronti delle persone trans e al loro pieno inserimento nella società, cosa che oggi non avviene. Dico “devono puntare” perché l’Italia appare giurassica nei confronti di altri paesi – come l’Uruguay – che questi diritti hanno già trasformato in legge. Ma se non si inizia da lì, non si va da nessuna parte. E per iniziare da lì, dal riconoscimento dell’esistenza legittima delle persone trans, i mezzi di comunicazione giocano un ruolo fondamentale. Per questo devono smettere di far finta di niente, o di vomitare sugli articoli e sui servizi che diffondono la posizione personale di autori o editori impregnati di discriminazione transfobica. Forse quando l’Ordine dei Giornalisti avrà il coraggio di pronunciarsi ed agire fermamente contro questo tipo di disinformazione discriminatoria, qualcosa potrebbe muoversi. Intanto, nel nostro piccolo, continuiamo, con le parole, a lottare contro altre parole.

Pubblicato il: 21/09/2020 da Thais Palermo