Meteore del prog italiano: perle nascoste nel nostro panorama musicale
La scorsa estate abbiamo lanciato un sondaggio per eleggere la miglior band italiana secondo gli ascoltatori di Radio Città Aperta. A vincere sono stati gli Area, che si sono imposti su formazioni del calibro della PFM, del Banco del Mutuo Soccorso e dei Goblin.
Il sondaggio ha generato molte interazioni e un intenso dibattito tra gli ascoltatori, con chi era d’accordo con l’esito finale, chi preferiva le altre band in gara e chi, invece, lamentava assenze importanti nella classifica.
Quest’oggi, piuttosto che continuare a soffermarci sui gruppi più importanti del progressivo made in Italy, coscienti del fatto che a meritare una menzione ci sarebbero altri gruppi come Le Orme, gli Osanna e tanti altri, vogliamo porre l’accento su tre perle nascoste di questo genere.
Degli Uomini, che sanno far musica
Nel 1973, vede la luce Zarathustra, prima e – più o meno – ultima fatica in studio per il Museo Rosenbach. Con questo disco la formazione ligure fornisce uno dei migliori esempi del genere progressivo, mettendosi al pari non solo dei più conosciuti gruppi italiani del periodo, ma anche di quelli internazionali. Non hanno nulla da invidiare nemmeno alle tanto osannate band del Regno Unito.
Zarathustra, di palese ispirazione nietzschiana, ha tutti gli elementi necessari per costituire un’opera raffinata, ricca di messaggi e piena di poesia: è ben suonata, ben arrangiata, i testi sono criptici e cervellotici, ci sono virtuosismi strumentali e vocali, e brani dal lungo minutaggio ricchi di suite e variazioni.
L’omonimo lato A, che conta un minutaggio complessivo di poco superiore ai venti minuti, è un concept composto di tracce di rara bellezza. L’ultimo uomo apre il disco con il suono del flauto al quale, dopo qualche secondo in sospensione, si aggiunge un rullo di tamburi in crescendo. Poi gli altri stumenti, con un posto speciale riservato alle tastiere. Toni quasi epici, solenni caratterizzano tutto il disco, e l’incipit ne è un immediato assaggio.
Su questo manto di note, si colloca la voce di Stefano Galiffi, piena e rauca al punto giusto. Il brano è un’autentica perla, che apre il disco in modo eccezionale. I suoni e i testi sono in grado di portare l’ascoltatore in una dimensione di calma e riflessione, dando qualche scossa ogni tanto con stacchi e variazioni, alternati a silenzi e sussurri ipnotici.
Prosegue così: calma apparente, poi ritmi serrati e potenti, guidati dall’ottima batteria di Giancarlo Golzi, a scandire il ritmo in cui si inseriscono synth, tastiere e chitarre distorte. Fino a Superuomo, il brano più lungo della suite, e anche quello con sonorità più hard rock, con riff di chitarra che, in alcune parti, riprendono anche la melodia cantata da Galiffi. La parte conclusiva della traccia, poi, si lega all’incipit dell’ultima: Il tempo delle clessidre, che in poco meno di tre minuti chiude il lato A.
Il Lato B riprende con le stesse modalità con Degli uomini, che parte con il silenzio, un intro sospeso di tastiera, per poi esplodere nella batteria e in un riff di chitarra incalzante che viene poi affiancato dalle tastiere in un incipit dal ritmo vigoroso, quasi nervoso, che perdura per tutta la traccia.
Anche Della Natura in più di otto minuti, presenta queste caratteristiche. Fino all’arrivo di un momento di calma apparente, dove ritroviamo il cantato. La quiete prima della tempesta di strumenti che porta il pezzo in chiusura, fino all’atto finale – Dell’eterno ritorno – che inizia con un riff di chitarra quasi metal, lasciando poi spazio alla voce e a testi ispiratissimi, adagiati sulle tastiere e sull’accompagnamento delle chitarre.
Viene da chiedersi perché un disco così bello, e ben strutturato, non abbia goduto di maggior diffusione e successo.
Presto detto. Sulla copertina dell’album a sfondo nero, una serie di figure compongono un inquietante volto dall’espressione spiritata, in un collage elaborato da Wanda Spinello. Tra le immagini che che danno forma al soggetto centrale c’è un busto di Benito Mussolini. Una provocazione più che uno schieramento, ma questo non viene compreso dall’ambiente, e il gruppo viene tacciato di avere tendenze di destra.
La scena prog dell’epoca era dichiaratamente di sinistra, e questo costò la censura e il rifiuto da parte di tutte le etichette di produrre i loro dischi.
Un paio di live album postumi e qualche cambio di formazione, fino alla pubblicazione, quasi trent’anni dopo, di Exit (2000) e Barbarica (2013), a confermare la qualità esecutiva di questo gruppo che avrebbe potuto dare molto di più, se gli fosse stato concesso almeno il beneficio del dubbio.
Museo Rosenbach – Zarathustra (full album)
https://www.youtube.com/watch?v=PPZKsBz1DQg
Vendesi saggezza e talento
La Locanda delle Fate si forma verso la fine degli anni ’70, relativamente tardi rispetto alle formazioni già avviate del periodo, ed esordisce a livello discografico sul finire dell’era d’oro del prog.
Il loro primo disco – Forse le Lucciole non si Amano Più, uscito nel 1977 – è una sorta di tassello finale, che sancisce la fine di un’epoca che stava lasciando il passo al punk all’estero, e alla canzone d’autore e alle canzonette in Italia. Una sorta di chiusura, che ben si sposa con il clima malinconico che pervade l’intero album.
Non che il prog si sia fermato lì. Lavori di questo genere sono usciti ancora fino ai giorni nostri, sia in Italia sia all’estero. Ma il fermento, la creatività e il successo dietro questo movimento persero di mordente, o si modificarono in evoluzioni altrettanto belle (come il progressive metal, il power e tante altre), ma differenti nel gusto e nelle intenzioni.
Forse le Lucciole non si Amano Più è un disco estremamente maturo, con una componente strumentale capace di muovere le emozioni di chi ascolta in direzioni malinconiche ma, al tempo stesso, bellissime. Una sorta di contemplazione di una bellezza effimera, che di lì a poco sarà soltanto un ricordo.
Un concetto molto romantico ed evocativo inciso da un gruppo che conta ben sette membri, con due tastiere, due chitarre e anche il flauto, ad accompagnare la bella voce di Leonardo Sasso.
I primi due brani del lato A – A volte un istante di quiete e la title track – sono il perfetto manifesto del gusto malinconico e romantico che pervade l’intero lavoro, dando prova dell’essenza prog del gruppo e della maturità di questa formazione che, a differenza delle band degli anni precedenti, si era formata sull’ascolto del miglior progressive, facendosi le ossa guardando gli atti che già avevano fatto la storia di questo genere.
Il disco mantiene una certa coerenza per tutto il suo minutaggio, con variazioni, riprese e suite di tutto rispetto. Spiccano i flauti in Sogno di Estunno, che mantengono melodie coerenti con il resto del lavoro accompagnati dal cantato graffiato di Leonardo Sasso e da riff di chitarra taglienti che portano il brano in conclusione.
A fare da tramite fino all’atto finale, Non Chiudere a Chiave le Stelle è la ballata di questo lato B, che si conclude con il punto più alto di tutto l’album: Vendesi Saggezza. Un brano disperatamente bello, fatto di analogie, richiami alla mitologia greca, melodie e variazioni di tastiere commoventi, con un testo criptico e romantico che sono la perfetta chiusura di un disco di grande rilevanza storica.
La Locanda delle Fate – Forse le Lucciole non si Amano Più (full album)
https://www.youtube.com/watch?v=nMqlWf01Lew
Buon Vecchio Richard
L’ultima meteora è una vera perla. Molti di voi la conosceranno, ma magari alcuni si saranno persi la particolarità di questo album. Unico in studio della formazione romana, che porta il nome della band: Buon Vecchio Charlie.
La particolarità sta proprio nei componenti. Il gruppo si forma nel 1970, con Luigi Calabrò, voce e chitarra, Sandro Centofanti alle tastiere, Walter Bernardi al basso, Rino Sangiorgio alla batteria e Carlo Visca alle percussioni. In seguito, l’uscita di Bernardi e Visca, venne compensata dall’ingresso di Paolo Damiani al basso, Sandro Cesaroni ai fiati e, udite udite, Richard Benson. Sì, avete letto bene. Il tanto discusso Richard Benson di cui tutti conosciamo i video, che subentra come cantante e chitarrista.
I brani di questo album sono molto ben strutturati. Siamo di fronte ad un lavoro di puro prog italiano. Con brani lughi, ma ben strutturati, come Venite giù al fiume, All’uomo che raccoglie i cartoni e altri meno lunghi, ma comunque toccanti, come Evviva la contea di Lane, dove le tastiere e il flauto si intreciano alla voce, sorprendentemente delicata, di Benson.
La vera gemma, però, è una delle due bonus track: Il guardiano della valle. Un brano quasi mitico, rilasciato nella riedizione del 1999. Riedizione che fa pensare ad una prima pubblicazione di gran lunga antecedente. Invece, nonostante la qualità del lavoro, questo disco non vede la luce fino al 1990.
Peccato, perché aveva tutte le caratteristiche per diventare un classico nel suo genere, e lanciare la band verso una carriera ben più prolifica. Ma la vita, si sa, non va sempre come ce la immaginiamo. E quindi dobbiamo goderci questo unico lavoro, come una rarità del nostro sconfinato panorama musicale.
Buon Vecchio Charlie – Il guardiano della valle
https://www.youtube.com/watch?v=EjCQzMuZLDY
Photo credits
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Autore: Camilo Rueda Lopez
Copyright: Camilo Rueda Lopez