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“C’era una volta a… Hollywood”: un film dannatamente tarantiniano

“C’era una volta a… Hollywood”: un film dannatamente tarantiniano

di Davide Calcabrina

“C’ERA UNA VOLTA A… HOLLYWOOD”

Mettiamo subito le cose in chiaro, chi scrive ama Tarantino, lo ama tantissimo.
“C’era una volta a… Hollywood” ha tanto Tarantino dentro da sembrare cosi? diverso dalle pellicole piu? tarantiniane note al grande pubblico.
Un film che in buona sostanza, ha un forte marchio tarantiniano senza apparire fino in fondo “di Tarantino”.

Semplicemente diverso.

Sembra dividersi tra un onanismo autocelebrativo di se?, gia? apparso piu? volte nelle pellicole di Tarantino e un tributo così potente alla settima arte tanto da renderla, ancora una volta dopo “Bastardi senza gloria”, in grado di cambiare il corso degli eventi.

La narrazione ci riporta alla Hollywood di fine anni 60, precisamente ai giorni che precedono l’efferato massacro di Cielo Drive dove perse la vita, insieme a tre suoi amici, l’attrice Sharon Tate, moglie, in dolce attesa, del regista Roman Polan?ski. Strage compiuta per mano della Manson family.

Un film diverso, dicevo, dove a lunghi tratti la mano del regista si riscontra nei tecnicismi (dialoghi, piani sequenze, musiche) piu? che nella trama o nel dipanarsi della stessa.

Ma Tarantino c’e? eccome. C’e? nella caratterizzazione dei personaggi.
Sharon Tate, una Margot Robbie sempre piu? brava, che guarda se stessa in una sala cinematografica e si compiace della propria prova traendo nutrimento per il suo ego dalle reazioni entusiaste del pubblico presente in sala, e? sinossi ed esegesi dell’effimera quanto potente droga che e?, e? stata e sara? sempre la notorieta?.

Brad Pitt, nel ruolo di Cliff Booth, e? a tratti stellare, nella trama e? lo stuntman di Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) ma deve esser letto sia come alterego che catarsi del protagonista, l’uomo che Rick non vorrebbe mai essere ma anche l’uomo piu? presente a se stesso che l’industria Hollywoodiana potesse partorire in un sistema che fagocita tutto e tutto rigetta, pronta a scegliersi una nuova vittima da mitizzare prima di uccidere.
Giusto, centrato, coerente, amico leale, sara? lui a portarci nel ranch che e? culla e ritrovo
della Manson Family, prima ancora che essa stessa risalti alla cronaca per i crimini che tutti conosciamo, in una scena dove quasi per la prima volta si riscontra inequivocabilmente la mano tarantiniana.

C’e? tanta amicizia nella storia della Hollywood che c’era una volta di Quentin Tarantino; e? proprio nel rapporto tra Cliff Booth e Rick Dalton. Quest’ultimo, il vero protagonista, e? un Di Caprio semplicemente perfetto. Interpreta un attore di B-Movie e serie tv western che si ritrova ad un passo dalla fine di una carriera mai decollata veramente. Realta? che gli viene sbattuta in faccia, come una torta in una fiera di qualche contea del sud statunitense, da un cameo prevedibilmente perfetto di Al Pacino nel ruolo di Marvi Shwarz.

Il dramma esistenziale che colpisce Rick lo porta a compiere scelte professionali che appaiono quasi poco lucide, fino ad arrivare a tentare fortuna in europa, in Italia, in quel genere che ha visto dare il meglio di se? a registi quali Corbucci e Margheriti.

Rick Dalton e? al contempo sintesi e allegoria; nel suo personaggio ritroviamo Steve McQueen, Ty Hardin, Pete Duel, Ed Byrnes, carriere diverse, miti diversi ma un’unica pennellata di colore perfetta come un vestito su misura per rappresentare un protagonista vittima di una parabola comune a molti ed eroe di una storia mai esistita se non nella testa geniale di Tarantino che si conferma tale in una pellicola che non sara? ricordata tra le migliori della sua carriera.

In “C’era una volta a… Hollywood” si ride, ci si diverte anche se due ore e tre quarti non sempre filano lisce come bere un bicchiere d’acqua; si riflette anche in una scena visivamente pulp ma con un significato che e? un “horror sociale”: chi e cosa sono quelle ragazze che frugano nella spazzatura e girano per Los Angeles, sfilando e danzando, felici e sorridenti, come se facessero parte di un musical surrealista, se non i demoni, gli effetti collaterali di un sistema e di una societa?, non solo Hollywoodiana ma americana, che li ha prodotti e che al contempo puo? e potrebbe diventarne vittima?

Il finale e? folle, divertente, e? splatter quanto basta, una sorta di aritmia tachicardia su un elettrocardiogramma regolare. E? dannatamente tarantiniano.

La nona pellicola di Tarantino non e? in grado di scalfire un podio composto da titoli quali “Pulp Fiction”, “Le Iene” e “Kill Bill” ma sarebbe un peccato perdersela.

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Pubblicato il: 12/10/2019 da Redazione Radio Città Aperta