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Il dramma della ristoratrice suicida e il corto circuito dell’informazione

Il dramma della ristoratrice suicida e il corto circuito dell’informazione

La drammatica vicenda di Giovanna Pedretti, e sopratutto il suo drammatico finale, nasce da un corto circuito dell’informazione giornalistica, che poi è diventato una valanga social: ma la storia del post “anti omofobo”era una notizia così importante, da meritare quella visibilità?

di Alessio Ramaccioni

E’ colpa dei social. No, è colpa degli influencer. No, è colpa dei food blogger che si improvvisano debunker. No, è colpa della vittima. La triste vicenda di Giovanna Pedretti, suicida dopo una campagna social contro di lei, colpevole di aver pubblicato un post probabilmente (ma non è certo) falso, potrebbe avere molti colpevoli. Ma, come spesso accade nella palude dell’infosfera, l’impressione è che i ragionamenti messi in campo allontanino – più che avvicinare – da una riflessione corretta ed utile al dibattito.

Ricostruiamo la storia: Giovanna Pedretti è la titolare di una pizzeria nel paese di Sant’Angelo Lodigiano, 13mila abitanti, provincia di Lodi, Lombardia. La signora pubblica la recensione di un cliente, che si lamenta della presenza di omosessuali e disabili all’interno della pizzeria. La pizza, però, era buona. Insieme al testo della recensione, Giovanna Pedretti pubblica anche la sua risposta, o presunta tale: “Egregio cliente, il nostro locale non fa per lei. Noi non selezioniamo la nostra clientela in base al gusto sessuale o alla disabilità”. Applausi. I social esplodono: brava Giovanna, così si fa. La vicenda rimbalza di condivisione in condivisione, fino ad attirare l’attenzione dell’informazione con la I maiuscola. La stampa, i giornalisti, chi fa del divulgare le notizie – dopo averle verificate – il proprio mestiere. La storia della pizzaiola Giovanna, da emozionante vicenda social, diventa una notizia, e finisce nei tg e sulle pagine dei giornali. Attenzione, spoiler: è esattamente a questo punto della vicenda che inizia il disastro.

Quella che ormai è diventata una notizia diventa sempre più visibile, e mostrandosi in maniera sempre più chiara, mostra anche le sue crepe. Inizia il cosidetto “debunking”, o forse è meglio dire che scatta il “fact checking”: si tratta, al netto delle orribili definizioni in lingua inglese, della verifica dei fatti e della veridicità della notizia. Roba da ABC del giornalismo, pratica che esiste da qualche secolo prima della nascita dei social networks. E’ vera la storia della signora Giovanna? Il post è credibile? La recensione del cliente omofobo e abilista è davvero stata pubblicata, riferita veramente a quel locale? Come se si stesse parlando delle dichiarazioni giurate di un capo dello Stato o del papa, la notizia della pizzaiola antirazzista viene smontata, girata e rigirata, passata sotto mille lenti di ingrandimento. A smascherare la possibile “fake news” è, in particolare, il lavoro di Lorenzo Biagiarelli, “food blogger” e compagno di vita della più nota Selvaggia Lucarelli. Secondo Biagiarelli il post è fasullo, la storia è falsa, la signora ha utilizzato le categorie della disabilità, dell’omosessualità, dell’omofobia e dell’abilismo per farsi pubblicità.

Apriti cielo! Anzi, apriti social! Giovanna Pedretti viene messa alla berlina, offesa, passa dalle stelle alle stalle, finisce proprio in mezzo all’occhio di un ciclone che, per più di qualcuno, è stata in realtà lei a generare. Il “debunking” acquista visibilità anche grazie alla già citata giornalista ed influencer Selvaggia Lucarelli, che rilancia i post del partner. La vicenda è ribaltata, un probabile bluff è smascherato, e nel mondo in cui un Segretario di Stato americano mentì al mondo affermando che l’Iraq aveva armi di distruzione di massa (Colin Powell nel 2003, cosa che causò una sanguinosa guerra che costò centinaia di migliaia di morti), si potè finalmente godere della ripristinata VERITA’.

Poi, la signora si suicida. A causa della tempesta di offese che si è abbattuta su di lei? Non si sa. I social, ormai metronomo dello stato emotivo della collettività, esplodono ancora: adesso i grandi colpevoli sono Biagarelli e la Lucarelli colpevoli – addirittura – di aver contribuito a creare i presupposti del suicidio della signora. Ovviamente ci sono delle indagini in corso, perchè purtroppo c’è una donna che è morta: e saranno queste, e poi i giudici, eventualmente, a dire cosa ha causato la fine della povera Giovanna Pedretti. Molto probabilmente emergerà che non è stata colpa di Biagiarelli, della Lucarelli, forse nemmeno dei social. Vedremo.

A questo punto, una cosa sarebbe importante: cercare di capire – e definire – cosa abbia innescato il meccanismo mediatico e sociale che ha determinato il concatenarsi degli eventi. Ed è proprio arrivati a questa fase di “riflessione”, come anticipato nello “spoiler” all’inizio dell’articolo, che inizia a farsi forte l’impressione che lo sguardo si concentri sul dito, invece che sulla luna. Perchè la storia della signora che risponde per le rime al presunto cliente omofobo è diventata notizia di telegiornale? Di storie simili se ne leggono, scorrendo le timeline delle varie piattaforme. Perchè un post, simile a migliaia d altri, diventa oggetto di attenzione giornalistica? Che interesse pubblico riveste una “notizia” del genere? Cosa cambia per il diritto all’informazione della collettività sapere che la storia in questione sia vera, falsa, un po’ vera, verosimile? Si potrebbe dire che a fare di un fatto una notizia è l’interesse degli utenti: ma è la storia che è interessante, o è il fatto che sia pompata a dismisura a renderla talmente ingombrante da non poter non essere notata? Di vicende simili , come detto, ne capitano tante, e ne vengono raccontate altrettante: storie che colpiscono la pancia di una categoria di pubblico, che dividono e dunque creano interesse, che scatenano emozioni. Ma sono davvero tutte notizie, o sono meri catalizzatori di interesse, utili ad un settore editoriale alla canna del gas? Le redazioni che hanno raccontato la vicenda di Giovanna Pedretti, hanno verificato che fosse vera ed inattaccabile PRIMA di pubblicarla e trasformarla in una notizia? L’impressione è che l’ansia di tenere i lettori, gli spettatori, gli ascoltatori legati al mezzo di comunicazione sia talmente forte da far scordare a tutto il sistema dell’informazione (editori, direttori, giornalisti) l’importanza del mestiere giornalistico. Il giornalismo deve essere strumento di democrazia, di cultura, di promozione sociale della comunità. E’ un lavoro serio, faticoso, a volte noioso, spesso poco divertente, che deve necessariamente essere onesto ed etico. Stare incollati, in maniera ansiosa e febbrile, alla bulimia informstiva della collettività, agli umori della pancia del Paese, non è la strada maestra per portare il settore dell’informazione fuori dalla crisi devastante in cui versa. Trasformare stampa, tv, radio in versioni multimediali dei social è esattamente l’opposto di quello che dovrebbe avvenire, per il bene di chi legge/guarda/ascolta.

In questa storia, la responsabilità della stampa (ossia di chi fa informazione per mestiere, ed ha studiato e fatto esperienza per farla) è enorme ed imperdonabile. E’ lecito non approvare il modus operandi di chi usa i social come una clava. Ma quando l’odiata (per qualche giorno) Selvaggia Lucarelli fa presente che “nessuno ha il coraggio di fare una riflessione sul ruolo della stampa in questa vicenda, purtroppo ha ragione. 

Pubblicato il: 18/01/2024 da Alessio Ramaccioni