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L’assassinio di Mahsa Amini: una scintilla che innescherà la rivoluzione?

L’assassinio di Mahsa Amini: una scintilla che innescherà la rivoluzione?

È sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale il caso della ventiduenne curda Mahsa Amini, che il 13 settembre scorso è stata arrestata a Teheran dalla polizia morale “Guidance Patrol” (in iraniano basij, una forza paramilitare voluta dall’Ayatollah Khomeini nel 1979), intervenuta perché la ragazza non si era attenuta a quanto prescritto dalla legge sull’obbligo del velo (hijab), in vigore in Iran dal 1981 (e dal 1983 valida anche per le donne straniere).

Nello specifico Mahsa, che si era recata in vacanza a Teheran con la sua famiglia, non aveva indossato il velo “in modo adeguato”, per cui era stata condotta dalla polizia presso un centro di detenzione per essere “rieducata” alla regola dell’hijab.

Le circostanze del suo decesso, avvenuto in ospedale il 16 settembre scorso, dopo 3 giorni di coma, rimangono un argomento molto controverso: la polizia sostiene che Mahsa sia morta per un attacco cardiaco, ma la sua famiglia e testimoni oculari affermano invece che ella sia stata picchiata nel furgone della polizia prima di essere portata al centro di detenzione, riportando segni di tortura e di abuso visibili sul suo corpo.

La triste e nello stesso tempo orrenda vicenda ha scatenato numerose proteste non solo in Iran, ma in diverse parti del mondo. Mahsa è l’ennesima vittima di un sistema, quello della Repubblica Islamica dell’Iran, sicuramente retrogrado e violento, che continua imperterrito e in maniera diffusa a violare i diritti umani e, nello specifico, a calpestare i diritti delle donne.

Numerosi i messaggi di solidarietà pervenuti da parte di esponenti delle istituzioni, ma anche dello star system, come per esempio quello dell’attrice Angelina Jolie, che sul suo profilo Instagram ha scritto

To the women of Iran, we see you” (“Alle donne iraniane, noi vi vediamo”),

schierandosi al loro fianco.

Oltre ad Amnesty International, lo stesso presidente iraniano Ebrahim Raisi, dopo giorni di rivolte e sangue, aveva chiesto di aprire un’indagine sull’accaduto:

Ho contattato la famiglia della vittima e ho assicurato che continueremo a investigare velocemente l’incidente – aveva affermato Raisi in un suo discorso tenuto a New York – La nostra preoccupazione è la salvaguardia dei diritti di tutti i cittadini“,

anche se poi ha disertato un’intervista con la CNN perché l’intervistatrice, Christiane Amanpour, si era rifiutata di indossare il velo come richiesto dallo staff della presidenza iraniana.

Raisi, tuttavia, ha in seguito accusato l’Occidente di avere “doppi standard” sui diritti, in particolare su quelli relativi alle donne:

I diritti umani appartengono a tutti ma purtroppo ci sono casi come le tribù di nativi in Canada, i diritti dei palestinesi, i migranti che cercano libertà ma i loro bambini finiscono nelle gabbie, gli afroamericani uccisi“.

Nonostante le affermazioni del presidente iraniano, da Teheran il messaggio che è arrivato nei giorni scorsi da parte dell’apparato di sicurezza è stato di segno contrario, quindi tutt’altro che rassicurante, in quanto il capo della magistratura iraniana Mohseni-Ejei ritiene di dover usare il pugno di ferro contro i manifestanti, ragion per cui ha ordinato di reprimere le proteste e di non scendere a  compromessi, specialmente con i “rivoltosi professionisti”.

Ma la repressione non avviene solo nelle piazze: mentre le strade di Teheran e di diverse altre città in Iran si sono riempite di manifestanti per il barbaro femminicidio di Mahsa, ed è salito giorno dopo giorno il numero delle vittime degli scontri con la polizia (Amnesty International ha dichiarato che anche dei bambini sono stati uccisi dalle forze di Stato), le autorità iraniane hanno pensato bene di limitare l’accesso ai social media come Instagram e WhatsApp.

I video e le foto che documentano sui social ciò che sta accadendo, dall’arresto di Mahsa alle donne che bruciano il velo e si tagliano i capelli in segno di protesta, continuano comunque a proliferare e a fare il giro del globo sotto gli hashtag #MahsaAmini #IranProtest e #IranRevolution.

Il seme della rivolta è stato piantato e le sue radici si stanno propagando ovunque. Le proteste inarrestabili si stanno trasformando in una rivoluzione per dire no a un regime che da tanto, troppo tempo, calpesta i diritti umani.

 

Oltre le piazze di tutto il mondo, l’implacabile onda della protesta sta interessando anche il nostro Paese: oggi, da Milano a Napoli, si tengono manifestazioni in solidarietà con i giovani iraniani.

Cortei e sit-in sono stati organizzati da Roma a Tokyo per chiedere “giustizia per Mahsa” e condannare la repressione delle autorità contro i dimostranti, che ha provocato finora più di 80 vittime.

Ma cosa sta accadendo in Iran in queste ore?

Molti gli studenti delle università che hanno organizzato sit-in e scioperi, unendosi alle dimostrazioni, in corso da oltre due settimane, per Mahsa: tutte iniziative nate in seguito ad una campagna lanciata da loro stessi giorni fa invitando a boicottare le lezioni on-line in tutto il Paese. Il governo aveva annunciato che, nelle maggiori università, le lezioni si sarebbero tenute on-line per limitare la possibilità che gli studenti si radunassero per partecipare alle proteste.

Mahsa è l’ennesima vittima di un regime dalle rigide regole morali: questa ragazza ha pagato carissimo – con la sua vita! – solo per aver fatto un “uso non corretto” del velo islamico, lo hijab, che è una sorta di foulard che va indossato coprendo i capelli e il collo, lasciando scoperto il viso. In questi giorni, tra le richieste di chi protesta, c’è quella di allentare, dunque, non solo le regole che impongono alle donne di indossare il velo, ma anche di eliminare la “polizia religiosa”, che si occupa di farle rispettare.

Per una breve storia del velo islamico in Iran, rimando ad un articolo de Il Post che si può leggere QUI da cui ho estrapolato quanto di seguito:

È appurato che negli ultimi anni numerose sono state le proteste contro l’imposizione del velo, ma l’hijab – difficile a credersi – in passato è stato simbolo di liberazione e di oppressione nello stesso tempo.

Nel 1936, prima dunque della rivoluzione islamica, quando in Iran non vi era un governo teocratico ma il regime dello scià Reza Pahlavi, quest’ultimo, seguendo l’esempio di altri leader autoritari del tempo, impose una modernizzazione e un’occidentalizzazione forzata dell’Iran emettendo il decreto Kashf-e hijab, che si traduce come “svelamento”, che vietava alle donne di indossare l’hijab e altri veli islamici in pubblico. Fu inoltre imposto agli uomini di abbandonare gli abiti tradizionali e di vestirsi all’occidentale. All’epoca quasi tutte le donne iraniane indossavano il velo, e quel decreto fu visto come un abuso, soprattutto ed anche perché fu dato ordine alla polizia di far rispettare lo “svelamento” con la forza, per cui le donne che indossavano l’hijab in pubblico venivano spesso malmenate strappando loro il velo dalla testa.

Quando nel 1941 divenne scià Mohammad Reza Pahlavi, il Kashf-e hijab venne abrogato e alle donne fu permesso di vestirsi come volevano. Ma l’hijab rimase uno dei simboli della lotta politica, anche perché lo scià continuava a promuovere uno stile di vita all’occidentale, mentre venivano discriminate le donne che portavano il velo. La rimozione di quest’ultimo divenne il significante non soltanto della campagna di occidentalizzazione forzata portata avanti dallo scià, ma anche del suo regime autoritario. Indossarlo, invece, divenne quasi l’emblema dell’opposizione: cominciarono a farlo in segno di rivolta non soltanto le donne appartenenti ai ceti più conservatori, ma anche quelle istruite e benestanti della classe media. Poi ci fu la rivoluzione islamica del 1979, che vide salire al potere l’Ayatollah Khomeini, il quale in principio presentò la rivoluzione come islamista ed anti-occidentale, cercando di porre fine al regime autoritario dello scià. Ma in poco tempo Khomeini e i suoi rivoluzionari imposero in Iran una rigida teocrazia, estromettendo dal potere perfino i non religiosi che avevano contribuito alla rivoluzione. Fu dunque imposto alle donne di indossare il velo, che in migliaia (anche quelle stesse che avevano sostenuto la rivoluzione), si ribellarono: celebre la protesta dell’8 marzo del 1979. Nel 1980, a quelle che non usavano il velo fu vietato di entrare negli uffici pubblici, ma nel 1981 indossare il velo tornò ad essere obbligatorio (dal 1983 è obbligatorio anche per le straniere), e furono in seguito previste delle pene corporali (74 frustate!) per le donne che uscivano di casa senza velo.

Ecco come nel giro di pochi anni, in Iran, il velo passò dall’essere un simbolo di liberazione dal regime dello scià a un simbolo di oppressione del regime degli Ayatollah. Le proteste contro il velo tuttavia non si sono placate mai del tutto, e nel corso degli anni i movimenti contro le imposizioni morali del regime iraniano sono diventati sempre più numerosi. La legislazione iraniana prevede ancora oggi la possibilità che una donna che esce di casa senza velo sia punita a frustate, ma si tratta di una pena ormai piuttosto rara. Normalmente, la legislazione iraniana prevede una multa o una pena detentiva. Il problema, però, è che la polizia religiosa, che ha il compito di far rispettare queste regole, ha enorme discrezionalità in questo, per cui si sono registrati numerosi casi di abusi: per esempio ad alcune donne arrestate sono state imposte cauzioni esorbitanti per uscire di prigione.

Capita dunque che la polizia religiosa prenda di mira le donne che usano l’hijab in maniera non corretta, lasciando per esempio intravedere una ciocca di capelli e una parte del collo… Ed ecco spiegata la triste vicenda che ha portato alla morte di Mahsa Amini, o meglio alla sua uccisione, solo perché i capelli le uscivano un po’ dal velo.

La situazione e la tutela dei diritti umani è da sempre drammatica in Iran, ma la polizia religiosa sta facendo, come si suol dire, “il buono e il cattivo tempo” specialmente da quando Ebrahim Raisi è diventato presidente nel 2021. Raisi è sospettato per crimini contro l’umanità: infatti è ex capo del potere giudiziario e nel 1988 faceva parte della “commissione della morte” che presiedette all’esecuzione di migliaia di dissidenti politici nelle prigioni di Evin e Gohardasht.

Ci si domanda se le proteste di questi giorni, che si stanno trasformando sempre più in rivolte per la libertà e contro le autorità, in una sfida aperta al regime degli Ayatollah, e che stanno alzando il livello di tensione tra Teheran e molti paesi occidentali, possano portare ad un cambiamento di rotta ed all’abolizione di un regime che da tanti anni ormai tiene sotto pressione gli iraniani, specialmente la popolazione femminile: le persone vivono oppresse dalla paura, in un clima difficile e di terrore costante.

Con riguardo alle iniziative di solidarietà qui in Italia, per esempio a Milano, La Triennale ha lanciato pochi giorni fa “Una ciocca di capelli in Triennale in solidarietà con le donne iraniane”, per cui è possibile lasciare una ciocca dei propri capelli, legata con un filo di corda, in un apposito contenitore nell’atrio del Palazzo dell’Arte. Le ciocche raccolte verranno poi consegnate al Consolato Generale della Repubblica Islamica dell’Iran in segno di protesta. Una simile iniziativa si sta tenendo anche a Roma, al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, ove è possibile lasciare una ciocca dei propri capelli, legata con un filo di corda, in un apposito contenitore presso l’Info Point.

Le proteste per l’uccisione di Mahsa vertono attorno alla questione dell’obbligo del velo per le donne, ma potrebbero fare da catalizzatore per un’azione politica più ampia e trasversale in Iran, come sostiene Annabelle Sreberny, professoressa al Centro Studi Iraniani presso l’Università di Soas, a Londra, che tramite le pagine di The Guardian ci fa sapere:

It could be the moment when people motivated by all the problems facing Iran today, like rising inflation, ecological crisis and lack of democratic participation, coalesce around these women’s issues to challenge the regime”.

Non si dimentichi, infine, che l’estate iraniana è stata ancora una volta caratterizzata dal perdurare delle negoziazioni con il gruppo P4+1 (Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia più Germania) e gli Stati Uniti per il ritorno all’accordo sul nucleare del 2015 (Fonte: ispionline), mentre la guerra in Ucraina ha portato ad un riavvicinamento tra Teheran e Mosca, le cui premesse, tuttavia, rimangono dubbie e problematiche.


Fonte immagine in evidenza: Mahsa Amini – Twitter


 

 

Pubblicato il: 02/10/2022 da Skatèna