Tu che parli delle rivolte in carcere, ma in realtà non sai nulla
di Lorenzo Palmisciano
Quattordici morti in tre giorni. Questo il bilancio, pesantissimo, delle rivolte scoppiate in molti istituti penitenziari del nostro paese nei giorni compresi tra l’8 ed il 10 marzo scorsi. Le persone recluse nelle carceri italiane protestavano contro alcune delle misure restrittive adottate dal governo al fine di ridurre il contagio di coronavirus.
La notizia ha scalato velocemente le cronache nazionali, salvo poi scomparire con la stessa rapidità dalla gran parte dei media, anche in seguito alla sempre più preoccupante evoluzione dell’emergenza che sta colpendo il nostro paese.
Abbiamo cercato, anche grazie all’aiuto di Alessio Scandurra (Osservatorio Adulti sulle condizioni di detenzione – Associazione Antigone), di fare il punto della situazione.
Le proteste
Le proteste scoppiano in alcuni istituti (Modena, Milano, Foggia, Rieti, Roma…) l’8 marzo, quando le amministrazioni rendono noto ai detenuti che le visite e i colloqui con i parenti saranno interrotte per prevenire il contagio di coronavirus all’interno delle carceri.
La situazione degenera rapidamente, con scontri e tentativi di evasione. “Tutto è avvenuto in tempi abbastanza brevi, nei giorni tra l’8 ed il 10 marzo. Ad eccezione di qualche piccolo strascico, tutto si è fermato molto presto”, spiega Scandurra.
L’Associazione Antigone aveva previsto e segnalato più volte, nei giorni precedenti, il rischio di un escalation di tensione all’interno degli istituti. Gli appelli, tuttavia, sono caduti nel vuoto e la rabbia è esplosa in modo incontrollato, con un bilancio finale di 14 morti. Ricostruire i fatti dall’esterno, tuttavia, è particolarmente complicato: “Noi, normalmente, valutiamo la situazione esistente visitando i luoghi di detenzione, a cui in questo momento non abbiamo accesso; la facciamo anche parlando con operatori e volontari, ma per ora neanche loro possono entrare”, afferma Scandurra. Diventa quindi difficile riuscire a fare chiarezza su cosa sia realmente accaduto e, soprattutto, su quali siano state le cause dei decessi.
La versione ufficiale arrivata dagli istituti penitenziari parla di overdose da metadone: i detenuti in rivolta avrebbero assaltato, tra le altre cose, le infermerie, riuscendo così a procurarsi medicinali che normalmente vengono somministrati con dosaggi controllati. Una versione che non riesce a convincerci del tutto: proprio mentre sono in corso proteste violente dentro le nostre carceri, con risposte che immaginiamo tutt’altro che tenere da parte delle forze dell’ordine arrivate a sostegno della polizia penitenziaria, muoiono 14 detenuti, tutti per overdose. Strano, come minimo. Eppure non abbiamo, e probabilmente non avremo mai, elementi per sostenere tesi alternative, come sottolinea ancora Scandurra: “Le notizie che cominciano a uscire sono sorprendenti: le uniche persone di cui si ha notizia degli esiti preliminari delle autopsie confermano la tesi dell’intossicazione acuta da metadone, che è stata la tesi ufficiale sin dall’inizio. Nella mia esperienza non avevo mai sentito una cosa simile. Sappiamo che spesso i detenuti tossicodipendenti cercano di rubare farmaci, sappiamo che per un tossicodipendente in astinenza quella è l’assoluta priorità, però al tempo stesso non avevamo mai visto, né mai pensato, che potesse accadere una cosa del genere”.
Le misure di prevenzione contro il coronavirus
Come detto, all’origine delle proteste c’è stata la decisione di interrompere le visite che i detenuti ricevono dall’esterno. Una scelta che è per molti versi comprensibile: è infatti indiscutibile che in un ambiente chiuso come il carcere, il rischio di contagio possa arrivare esclusivamente da chi accede agli istituti dall’esterno.
Sospendere gli incontri tra i detenuti ed i loro cari, quindi, contribuisce senz’altro a ridurre le probabilità che qualcuno, inconsapevolmente, veicoli il virus all’interno degli istituti penitenziari. Tuttavia, ci sembra che il ragionamento da fare sia più ampio.
E’ infatti altrettanto certo che ad accedere ogni giorno negli istituti italiani non siano soltanto i parenti delle persone detenute all’interno. Anzi, questi rappresentano probabilmente una percentuale ridotta del totale. Quotidianamente, come è logico, nelle carceri italiane entrano tutti quegli individui che fanno parte dell’amministrazione degli istituti, insieme agli agenti di polizia penitenziaria e ad operatori e volontari. Le fonti di possibile contagio, quindi, sono molteplici.
Vietare le visite contribuisce senz’altro a ridurre i rischi, ma probabilmente questa misura, presa da sola, potrebbe non essere sufficiente a scongiurare che anche nelle carceri si registrino casi di COVID-19, oltre ad acuire ulteriormente lo stato di isolamento ed il senso di solitudine dei detenuti stessi, privati anche di quei pochi momenti di contatto con i propri affetti.
Ma come salvaguardare il diritto dei detenuti a interagire con i propri cari, riuscendo allo stesso tempo a tutelare la salute di tutti?
L’associazione Antigone ha proposto di favorire le videochiamate, chiaramente sotto la supervisione del personale di controllo interno agli istituti. Allo stesso tempo, sarebbe necessario predisporre delle aree di controllo dello stato di salute di tutto il personale che entra negli istituti ogni giorno. Scelta che è stata adottata già da qualche tempo in Lombardia, vero cuore dell’emergenza, ma che tarda a trovare applicazione in altri istituti del nostro paese, nonostante il virus sia ormai diffuso su tutto il territorio nazionale. Purtroppo anche questa misura, per quanto utile, potrebbe non riuscire ad essere risolutiva. Basti pensare, ad esempio, ai possibili casi di personale asintomatico affetto da COVID-19.
Ci sembra allora evidente che gli interventi necessari non riguardino solo la prevenzione, ma anche le modalità per affrontare, nel modo più sicuro possibile, il rischio di un’eventuale diffusione del virus all’interno di uno o più luoghi di detenzione. Secondo Scandurra “la questione che angoscia i detenuti è, oltre al rischio di contagio, la consapevolezza che se si contrae il virus gli istituti non sono luoghi dove sia possibile mettere in quarantena i contagiati. Come si fa? Si può fare per uno, due, tre casi, ma cosa succede quando si supera quella soglia? La paura è anche, forse soprattutto, questa: se il virus entra non hai scelte. Sei lì e lì resti, e non parliamo di posti notori per alti standard igienici e sanitari e se stai sempre lì pensi anche alla puntata successiva. Noi, a casa, pensiamo soprattutto alla puntata precedente, pensiamo a evitare il contagio e a non dare un contributo alla diffusione della malattia, pensiamo molto meno a cosa ci succede se la contraiamo. Loro invece, secondo me, ci pensano di più”. D’altra parte i dati di cui disponiamo parlano chiaro. Le nostre carceri sono abbondantemente sovraffollate, con tutte le conseguenze che questo può comportare in una situazione emergenziale come quella in corso: “parliamo di 13-14 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare”, dice Scandurra: ”Questo chiaramente ha un impatto sulle celle, sulle infermerie, sulla struttura nel suo complesso, che è tarata su una certa soglia. C’è di più: quello che penso è che in questo momento ci sia bisogno di celle vuote. Non di una presenza ottimale, ma più bassa. Prendiamo il caso di una persona che potrebbe essere stata contagiata ma non sta male (in quel caso sarebbe trasportata in ospedale), magari un asintomatico. Ecco, questa persona deve rimanere in carcere, ma va isolata dagli altri detenuti. Come si può fare se non ci sono celle disponibili? Diciamo che in un istituto che funzioni a regime normale questi spazi ci sono (quelli destinati all’isolamento dei detenuti per ragioni sanitarie, di sicurezza, etc), ma sono tarati su un’esigenza ordinaria e su presenze standard. E’ chiaro che la situazione attuale non è nè ordinaria, né standard e quindi c’è bisogno, e ci sarà bisogno, di far scendere i numeri molto di più”.
Non solo debellare il sovraffollamento, quindi, ma portare gli istituti ben al di sotto della capienza standard, per trovarsi pronti nel caso in cui vi fosse la necessità di fronteggiare il contagio interno. Rispetto a tutto questo, però, l’intervento del governo è stato decisamente debole.
Il decreto approvato (e già da più parti ribattezzato impropriamente “svuota carceri”), secondo la stima di Antigone, permetterà la detenzione domiciliare a circa un migliaio di detenuti: nessun indulto, nessuno sconto di pena, quindi. Solo una modifica della modalità di detenzione (dal carcere alla propria abitazione) per di più riguardante un numero di casi sfacciatamente inferiore alle reali necessità. Il tutto adottando una misura che, a tutti gli effetti, fa già parte del nostro ordinamento, come ci spiega ancora Alessio Scandurra: “Si tratta di qualcosa che già esiste, cui si aggiunge un dispositivo tecnico – amministrativo per velocizzarne l’esecuzione.
La detenzione domiciliare per chi ha meno di 18 mesi di pena già esiste, è contenuta nella legge 199 ed è in funzione da diversi anni. Ad esempio, a febbraio 2020, grazie alla legge 199, sono uscite 152 persone. Quindi abbiamo un quadro molto chiaro, di questa misura. Ora ne è stata introdotta un’altra che mantiene per la detenzione domiciliare sempre il limite dei 18 mesi di pena, con qualche esclusione in più rispetto al passato (ad esempio non potrà rientrarvi chi ha ricevuto sanzioni disciplinari durante le proteste), ma senza più la necessità della relazione degli operatori. Diventa quindi un accertamento più rapido e più oggettivo. Il giudice non dovrà più leggere e valutare le relazioni ricevute dall’istituto. L’impatto della misura, dunque, riguarda principalmente questo. Sicuramente non sarà sufficiente neanche a raggiungere la capienza regolamentare”.
Conclusioni
Insomma, davanti al rischio che l’epidemia si propaghi anche all’interno delle carceri, l’unica soluzione ci sembra quella di svuotare, davvero e quanto più possibile, gli istituti. Favorendo la concessione della detenzione domiciliare, a tutela della salute di tutti: detenuti, forze dell’ordine (e familiari), operatori, volontari. Perché quella che ci troviamo di fronte è a tutti gli effetti un’emergenza nell’emergenza. E’ difficile, infatti, trovare altri termini per definire le condizioni di molti (la maggior parte, purtroppo) dei nostri istituti penitenziari: un sovraffollamento che si attesta attorno al 120%, condizioni igienico-sanitarie carenti, celle in cui l’acqua calda non è che un lontano ricordo o, addirittura, prive di docce.
Eppure forse la vera battaglia più difficile da vincere è un’altra.
Quella contro un’opinione pubblica sempre più feroce, sempre più pronta a isolare e punire chi ha sbagliato, a puntare il dito nel nome di un “cattivismo”che non contempla mai, per chi si trova dalla parte “sbagliata” della società, il diritto a una seconda opportunità.
Pubblicato il: 24/03/2020 da Valentino De Luca