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Le canzoni scritte da Paolo Villaggio assieme a Fabrizio De André

Le canzoni scritte da Paolo Villaggio assieme a Fabrizio De André

Non si risenta la gente per bene se non mi adatto a portar le catene…

Paolo Villaggio era grande amico di Fabrizio De André (amava chiamarlo Faber con riferimento alla sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell).

Spesso, insieme, durante gli anni della giovinezza, cercavano di sbarcare il lunario con lavori saltuari, anche imbarcandosi, d’estate, sulle navi da crociera per allietare le feste di bordo, ma soprattutto passavano molto tempo nelle varie osterie genovesi o a casa di amici.

Villaggio una volta ha raccontato: «Io e Fabrizio eravamo, direi senza saperlo, due veri creativi e lo abbiamo poi dimostrato nella vita […] lui si comportava come me, cioè facevamo una vita dissennata, andavamo a caccia di amici terribili […] i nostri genitori erano terrificati da questo tipo di vita, non si faceva niente e si dormiva regolarmente sino alle due del pomeriggio».

Villaggio scrisse anche i testi di due canzoni di De André: Il fannullone e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers.

Ma prima facciamo un piccolo salto indietro nel tempo…

Paolo e Fabrizio si erano conosciuti a Cortina nel 1948 e subito “si erano presi”.

Villaggio era “un ragazzino incazzato che parlava sporco”, ha detto una volta De André durante un’intervista. “Gli piacevo perché ero tormentato, inquieto ed egli lo era altrettanto, solo che era più controllato”.

Di fedi calcistiche diverse (Villaggio era sampdoriano, De André genoano), entrambi fecero il liceo classico ed entrambi si iscrissero a giurisprudenza, per poi però abbandonarla e dedicarsi ad altro, in primis all’arte del bighellonare, meglio se di di notte, tra i locali e i vicoli di Genova. Prima di diventare famosi, fecero anche da intrattenitori e suonarono insieme sulle navi da crociera.

Un pomeriggio (era il mese di novembre del 1962), in via Bovio, nel quartiere bene di Albaro a Genova, i due si trovavano assieme a casa di Paolo, e Faber stava strimpellando alla chitarra “una specie di inno da corno inglese“. Fu così che Paolo iniziò a buttar giù il testo di quella che sarebbe diventata una delle canzoni più apprezzate di De André: Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers.

Quest’ultima, assieme a Il fannullone, andarono a formare il terzo singolo a 45 giri di De André, pubblicato in Italia dalla Karim nel 1963.

Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers

Il brano si rifà alla “pastorella”, un antico genere popolare francese diffuso all’epoca dei trovatori, che trattava degli incontri amorosi tra cavalieri e “popolane”. Per rafforzare l’ambientazione bucolica e pastorale, gli incontri li si facevano avvenire nelle vicinanze di ruscelli e specchi d’acqua; nel caso in questione, si tratta di una “chiara fontanella”.

[…] la scelta dell’ambientazione medioevale fu tutta farina del mio sacco; Fabrizio ci mise solo la musica. Cioè avvenne il contrario, lui aveva già la musica ed io ci misi le parole. Fu così: era una giornata di pioggia del novembre del 1962 e io e Fabrizio, a Genova a casa mia in via Bovio, eravamo tutti e due in attesa del parto delle nostre signore, che poi partorirono lo stesso giorno, infatti Cristiano e il mio Pierfrancesco sono “gemelli”. Ebbene, forse per distrarci o per passare il tempo, Fabrizio con la chitarra mi fece ascoltare una melodia, una specie di inno da corno inglese e io, che sono di una cultura immensa, cioè in realtà sono maniaco di storia, ho pensato subito di scrivere le parole ispirandomi a Carlo Martello re dei Franchi che torna dalla battaglia di Poitiers, un episodio dell’ottavo secolo d.C., tra i più importanti della storia europea visto che quella battaglia servì a fermare l’avanzata, fino ad allora inarrestabile, dell’Islam. Erano arrivati fino a Parigi, senza Carlo Martello sarebbe stata diversa la storia dell’Europa. Comunque mi piaceva quella vicenda e la volli raccontare, ovviamente parodiandola. In una settimana scrissi le parole di questa presa in giro del povero Carlo Martello. (Paolo Villaggio)

Nella canzone si fa cenno all’usanza medievale, da parte dei soldati che partivano in guerra, di imporre alla proprie mogli l’uso della cintura di castità:

Chi poi impone alla sposa soave di castità

La cintura ahimè grave,

In battaglia può correre il rischio di perder la chiave

Come molti di voi sapranno, tale usanza è stata poi ripresa nel film Superfantozzi, quando il personaggio interpretato da Villaggio ritorna dalle crociate, ma si accorge di aver perduto la chiave della cintura di castità…

Si nota comunque, seppur nell’ambito scherzoso e divertito della vicenda narrata dalla canzone, una forma di antimilitarismo, dunque un’implicita accusa alla guerra:

Il sangue del principe e del moro
arrossano il cimiero d’identico color

Vi è, inoltre, una citazione dantesca: “Poscia, più che ‘l dolor poté ‘l digiuno” (Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII, in riferimento al conte Ugolino), che diventa “Ma più dell’onor, poté il digiuno”.

TESTO DI “CARLO MARTELLO RITORNA DALLA BATTAGLIA DI POITIERS”

Re Carlo tornava dalla guerra
Lo accoglie la sua terra
Cingendolo d’allor
Al sol della calda primavera
Lampeggia l’armatura
Del sire vincitor
Il sangue del principe del Moro
Arrossano il ciniero
D’identico color
Ma più che del corpo le ferite
Da Carlo son sentite
Le bramosie d’amor
“Se ansia di gloria e sete d’onore
Spegne la guerra al vincitore
Non ti concede un momento per fare all’amore
Chi poi impone alla sposa soave di castità
La cintura in me grave
In battaglia può correre il rischio di perder la chiave”
Così si lamenta il Re cristiano
S’inchina intorno il grano
Gli son corona i fior
Lo specchi di chiara fontanella
Riflette fiero in sella
Dei Mori il vincitor
Quand’ecco nell’acqua si compone
Mirabile visione
Il simbolo d’amor
Nel folto di lunghe trecce bionde
Il seno si confonde
Ignudo in pieno sol
“Mai non fu vista cosa più bella
Mai io non colsi siffatta pulzella”
Disse Re Carlo scendendo veloce di sella
“De’ cavaliere non v’accostate
Già d’altri è gaudio quel che cercate
Ad altra più facile fonte la sete calmate”
Sorpreso da un dire sì deciso
Sentendosi deriso
Re Carlo s’arrestò
Ma più dell’onor potè il digiuno
Fremente l’elmo bruno
Il sire si levò
Codesta era l’arma sua segreta
Da Carlo spesso usata
In gran difficoltà
Alla donna apparve un gran nasone
E un volto da caprone
Ma era sua maestà
“Se voi non foste il mio sovrano”
Carlo si sfila il pesante spadone
“Non celerei il disio di fuggirvi lontano,
Ma poiché siete il mio signore”
Carlo si toglie l’intero gabbione
“Debbo concedermi spoglia ad ogni pudore”
Cavaliere egli era assai valente
Ed anche in quel frangente
D’onor si ricoprì
E giunto alla fin della tenzone
Incerto sull’arcione
Tentò di risalir
Veloce lo arpiona la pulzella
Repente la parcella
Presenta al suo signor
“Beh proprio perché voi siete il sire
Fan cinquemila lire
è un prezzo di favor”
“E’ mai possibile o porco di un cane
Che le avventure in codesto reame
Debban risolversi tutte con grandi puttane,
Anche sul prezzo c’è poi da ridire
Ben mi ricordo che pria di partire
V’eran tariffe inferiori alle tremila lire”
Ciò detto agì da gran cialtrone
Con balzo da leone
In sella si lanciò
Frustando il cavallo come un ciuco
Fra i glicini e il sambuco
Il Re si dileguò
Re Carlo tornava dalla guerra
Lo accoglie la sua terra
Cingendolo d’allor
Al sol della calda primavera
Lampeggia l’armatura
Del sire vincitor

Il fannullone

La canzone fu eseguita da De André in occasione della sua prima apparizione televisiva, nel maggio 1963, durante il programma Rendez-vous.

Si tratta di una ballata che racconta di un uomo che ha scelto la “nullafacenza”, dormendo di giorno e vagando di notte a raccontar storie (un po’ quello che facevano Villaggio e De André da giovani…), e per questo non è ben visto dalla gente “per bene”.

Non si risenta la gente per bene se non mi addatto a portar le catene

Il lavoro è pertanto visto come schiavitù, antitetico a qualsiasi possibilità di creazione.

Un giorno il protagonista del brano trova anche lavoro in un ristorante, ma ben presto perde interesse per tale attività:

ma tu dicevi: “Il cielo
è la mia unica fortuna
e l’acqua dei piatti
non rispecchia la luna”

Nella canzone trova poi posto una dolce storia d’amore: l’uomo infatti si innamora e si sposa; tuttavia non riesce ad adattarsi alla vita matrimoniale, per cui la moglie lo lascia, anche se poi alla fine ci ripensa e torna tra le sue braccia.

  • Paolo Villaggio lo si osserva perfettamente nel testo, ad esempio con l’uso del caratteristico aggettivo tragico, che sarà in seguito talmente popolarizzato con la saga di Fantozzi da fargli assumere una nuova accezione nel vocabolario della lingua italiana. Fantozzi, ovvero –grattate le divertenti (e in certi casi celeberrime) gag- una delle più grandi requisitorie contro il lavoro e contro il padronato che siano mai state scritte in questo paese. Il mondo della grande azienda disumanizzante, il padrone santificato con le poltrone in pelle umana, il povero impiegatuccio coi suoi pregi e i suoi difetti, le sue umanità e le sue carognerie, che cerca in qualche modo di sopravvivere. Fantozzi, anch’esso oramai entrato nell’uso come sostantivo comune: un fantozzi, si dice da anni. E del rag. Fantozzi il “fannullone” di questa canzone è forse il necessario fratello, quello che non si è piegato. La provenienza è la stessa. Questa è una canzone deliziosamente rivoluzionaria, addirittura sovversiva. Allora come oggi. La storia di un uomo che sceglie di vivere il lato giocoso della vita, dormendo di giorno le sue famose “quattordici ore” e vagando di notte a raccontare storie, rendendosi così inviso alla “gente perbene”. [Fonte: Antiwarsongs]
 

TESTO DI “IL FANNULLONE”

Senza pretesa di volere strafare
io dormo al giorno quattordici ore
anche per questo nel mio rione
godo la fama di fannullone

ma non si sdegni la brava gente
se nella vita non riesco a far niente.

Tu vaghi per le strade quasi tutta la notte
sognando mille favole di gloria e di vendette
racconti le tue storie a pochi uomini ormai stanchi
che ridono fissandoti con vuoti sguardi bianchi

tu reciti una parte fastidiosa alla gente
facendo della vita una commedia divertente.

-Ho anche provato a lavorare
senza risparmio mi diedi da fare
ma il sol risultato dell’esperimento
fu della fame un tragico aumento

non si risenta la gente per bene
se non mi adatto a portar le catene.

Ti diedero lavoro in un grande ristorante
a lavare gli avanzi della gente elegante
ma tu dicevi -il cielo è la mia unica fortuna
e l’acqua dei piatti non rispecchia la luna

tornasti a cantar storie lungo strade di notte
sfidando il buon umore delle tue scarpe rotte.

-Non sono poi quel cagnaccio malvagio
senza morale straccione e randagio
che si accontenta di un osso bucato
con affettuoso disprezzo gettato

al fannullone sa battere il cuore
il cane randagio ha trovato il suo amore.

Pensasti al matrimonio come al giro di una danza
amasti la tua donna come un giorno di vacanza
hai preso la tua casa per rifugio alla tua fiacca
per un attaccapanni a cui appendere la giacca

e la tua dolce sposa consolò la sua tristezza
cercando tra la gente chi le offrisse tenerezza.

È andata via senza fare rumore
forse cantando una storia d’amore
la raccontava ad un mondo ormai stanco
che camminava distratto al suo fianco

lei tornerà in una notte d’estate
l’applaudiranno le stelle incantate

rischiareranno dall’alto i lampioni
la strana danza di due fannulloni
la luna avrà dell’argento il colore
sopra la schiena dei gatti in amore.


Fonte immagine in evidenza: https://it.wikipedia.org/wiki/Fabrizio_De_Andr%C3%A9#/media/File:Paolo-faber_corriere_della_sera.jpg


 

 

 

Pubblicato il: 11/01/2024 da Skatèna