Report Live King Crimson a Roma: uno spettacolo enorme
Parlare del concerto di lunedì sera 23 luglio dei King Crimson all’Auditorium di Roma (seconda serata delle due previste nella capitale per la band di Robert Fripp) non è semplicissimo. Non sono propriamente un fan della band, erano anni che non li ascoltavo con assiduità ed ho sempre avuto qualche problema di “gestione”, da ascoltatore, con quello che viene definito a volte in modo improprio “progressive”, e che nel caso specifico dei King Crimson appare in realtà come un contenitore di miriadi di sfumature, suggestioni, sonorità, stili, scelte artistiche, sperimentazioni e vere e proprie esplorazioni sonore.
Perché sono andato dunque a sentirmeli? Perché uno dei motivi per cui suono il basso è stato Tony Levin, perché comunque i King Crimson ci sono stati in quella che è stato il mio periodo di “formazione” musicale (che in realtà non è ancora finito), perché speravo di ascoltare tre o quattro brani che – anche ascoltati a distanza di anni – ancora mi fanno venire la pelle d’oca. Perché, da musicista, ero incuriosito dai tre batteristi, perché pur non essendo batterista sono innamorato di Gavin Harrison. Ma sopratutto perché sentivo che sarebbe stato meglio esserci che non esserci.
Devo ringraziare, ad essere sincero, un amico che mi ha “acchittato” la proposta in maniera irrinunciabile: ha preso lui i biglietti, si è occupato della “logistica”. Per un malato di pigrizia cronica come me, è stato indispensabile.
E devo ringraziarlo, di cuore.
Non mi soffermo sulla scaletta, sugli arrangiamenti, sulle scelte artistiche e musicali. Ne hanno parlato in tanti, ed in modo certamente più consapevole e competente di me.
Mi piace parlare invece della sensazione che mi ha regalato questo concerto. Subito, dalle prime note, è apparso inequivocabilmente come qualcosa di enorme. Fisicamente, emotivamente, qualitativamente enorme, quasi in grado di riempire fisicamente e saturare la Cavea dell’Auditorium.
Non parlo di volumi, parlo di imponenza, quasi di solennità musicale.
Già da un primo sguardo al palco la sensazione era particolare: tra i concerti seguiti da ascoltatore e spettatore e quelli vissuti sopra il palco, vedere i tre drum set allestiti in prima linea già regalava una forma di emozione, di leggero smarrimento. Personalmente mi è capitato raramente di assistere a concerti con due batterie, ed ho sempre avuto dubbi sulla reale funzionalità musicale di questa scelta.
Certo, sapere CHI ci sarebbe stato dietro quelle tre batterie un po’ faceva la differenza: Jeremy Stacey lo ricordavo come batterista dei Lemon Trees e session man con Noel Gallagher, Pat Mastellotto ovviamente per la sua militanza con i King Crimson (ma la sua attività è incredibilmente ampia e multiforme), Gavin Harrison per molte cose (i Porcupine Tree, la sua attività di turnista di livello nel pop italiano).
Ero incuriosito dall’interazione, da come la mente musicale di Robert Fripp aveva immaginato questa convivenza, dal modo in cui i tre musicisti avrebbero messo il loro talento a disposizione degli arrangiamenti.
Le tre batterie in prima fila e poi dietro, da destra a sinistra, la postazione di Mel Collins, Tony Levin , Bill Rieflin, Jakko Jakszyk e Robert Fripp, seduto, con chitarra e synth ed un paio di grandi ear monitor.
Dietro la staticità incombente dei cinque, davanti la frenesia dei batteristi. Un palco abbastanza fermo, che visivamente ha lasciato spazio alla musica.
Due set di oltre un’ora, una pausa di venti minuti, tonnellate di musica che arrivavano addosso al pubblico entusiasta. La perfezione tecnico esecutiva della band, gli stacchi studiati al sessantaquattresimo, le dinamiche perfette, i suoni enormi ed avvolgenti. Tutto perfetto, quasi a prescindere dall’elemento imprescindibile della valutazione musicale, e cioè il gusto musicale, l’approccio soggettivo.
Che io personalmente non ami eccessivamente la complessità di alcune strutture “prog” – uso questo termine per semplificare – me lo sono ricordato tornando a casa.
Troppa qualità per non esprimere un giudizio entusiasta, ed è qualcosa di particolare. Capita soltanto quando di fronte hai dei musicisti veramente importanti, ed è capitato lunedì sera.
Un particolare su tutti voglio sottolinearlo: Gavin Harrison. Forse perchè la maggior parte del concerto l’ho vissuta davanti a lui, ma la sua performance è stata impressionante. L’impressione è che la formula dei tre batteristi fosse Gavin Harrison più due, ma in questa valutazione emerge – per essere onesti – quello che è il mio gusto personale.
Se dovesse ricapitare, invito chiunque, a prescindere dalle proprie passioni musicali, a non perdersi questo enorme spettacolo di musica.
Alessio Ramaccioni