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Tom Morello spiega l’origine di Killing in the Name: “È lo schiavo nero che si ribella al padrone”

Tom Morello spiega l’origine di Killing in the Name: “È lo schiavo nero che si ribella al padrone”

di Karol Lapadula

A Portland, Oregon, i manifestanti del Black Lives Matter hanno adottato il ritornello di Killing in the Name, il pezzo forse più famoso dei Rage Against The Machine: “fuck you / I won’t do what tell me”, che tradotto significa ‘vaffanculo, non farò quel che mi dici’.

In un episodio della serie americana Rolling Stone Music Now, Tom Morello ricorda la genesi di Killing in the Name.

[Fonte: Rolling Stone US]

«La frase “vaffanculo, non farò quel che mi dici” esprime un sentire universale. Il testo è semplice, ma credo sia uno dei migliori scritti da Zack de la Rocha. Per come la vedo io, ha a che fare con Frederick Douglass», il politico americano abolizionista vissuto nell’Ottocento, nato schiavo e primo afroamericano ad essere candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti. «È stato Frederick Douglass a dire che il momento in cui ha acquistato la libertà non è quello in cui ha ottenuto la libertà fisica, è stato quello in cui il padrone ha detto “sì” e lui ha risposto “no”. È questa è l’essenza della frase “vaffanculo, non farò quel che mi dici”. Ed è per questo che è bello sentirlo urlare contro gli sgherri della Fed che sparano lacrimogeni contro i cittadini americani».

Morello ricorda anche la nascita della parte musicale. «Stavo dando lezioni di chitarra a un musicista locale già esperto e gli stavo mostrando come suonare l’accordatura abbassata, la Drop-D. Me l’aveva insegnata Maynard Keenan dei Tool. All’epoca suonavo il basso, uno schifoso basso Ibanez, e riflettevo sul fatto che quando suonavo con l’accordatura abbassata le dita erano spinte a fare movimenti diversi. La prima cosa che ho suonato è stato quel riff. Ho preso il mio piccolo registratore Radio Shack e l’ho registrato».

«In origine il pezzo era strumentale. C’è un video dei Rage Against the Machine alla Cal State Northridge, la nostra prima performance in pubblico, in cui apriamo il concerto con una versione strumentale di Killing in the Name. Timmy Commerford, se non sbaglio, aveva tirato fuori quel riff di basso molto figo. Il beat di Brad Wilk era presente fin dall’inizio. E poi Zack ha chiuso tutto con il testo. Non è stato stampato nel libretto del primo disco perché ci sono, credo, 15 “vaffanculo” e un “figlio di puttana”. Pensavamo: nel mezzo di tutta questa grande poesia politica, lasciamo che il pezzo parli da sé».

«Anche il dunna-dunt (prima che de la Rocha dica “e adesso fai quel che ti dicono”) era una parte molto importante. Ricordo il nostro referente dell’etichetta, Michael Goldstone, un genio. Curava i Pearl Jam. Era davvero il quinto Beatle, all’inizio. Ci ha aiutati molto, ma voleva che togliessimo quel passaggio. Credo che pensasse che quella parte assurda in cui la canzone si ferma avrebbe impedito di avere una hit. Era un’idea presa da Good Times, Bad Times dei Led Zeppelin. Noi eravamo sicuri che dovesse restare nella canzone, la storia ci abbia dato ragione».


Fonte immagine in evidenza: https://www.flickr.com/photos/thomashawk/16718046501, autore naromeel, licenza (CC BY-NC 2.0).

Pubblicato il: 20/08/2020 da Skatèna