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“Zyngher”: la Brianza cantata da Lorenzo Monguzzi

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Lorenzo Monguzzi, fondatore degli Zoo, gruppo con il quale nel ’97 ha vinto Arezzo Wave, e anima del trio acustico Mercanti di Liquore, ha presentato agli ascoltatori il suo nuovo lavoro Zyngher – Live in Brianza (Maremmano Records/Ird).

Registrato nella campagna brianzola, con tanto di uccellini e far da sottofondo, l’album contiene dieci tracce: otto sono quelle contenute nell’omonimo album in studio uscito nel novembre del 2020, in piena pandemia, con l’aggiunta di Portavèrta, title track del suo disco del 2013, primo da solista, con cui arrivò anche nella cinquina del Tenco sezione Opera Prima, e America, un inedito presentato qui nella sua forma primordiale, voce e chitarra.

Zyngher è un disco in dialetto brianzolo, per metà nato per gioco: “Ho provato a tradurre nel mio dialetto una manciata di canzoni ‘anglofone’ a cui sono legato – ha raccontato Monguzzi – . In alcuni casi l’operazione si è rivelata impossibile, perché il dialetto certe parole non le contempla o più semplicemente perché alla prova del nove, il canto per intenderci, il risultato suonava male o in qualche modo tradiva il senso poetico dell’originale. Con alcune canzoni invece tutto è filato liscio, molto più facile che con l’italiano così povero di tronche e di onomatopee.

Quello che le mie versioni mi sembrano evocare è indubbiamente più ruspante degli originali, ma l’ambizioso tentativo non è mai stato quello di fare delle parodie, bensì trascinare il dialetto in territori avventurosi quali la poesia o almeno la letteratura”.

Così il dialetto cavalca le melodie di Gypsy di Suzanne Vega che diventa, appunto, Zyngher, Henry Lee di Nick Cave, The guns of Brixton dei Clash che si trasforma in I rivultèi de Brixton, Folsom Prison Blues di Johnny Cash che prende il titolo di San Vitùr Blues e The girl from the Greenbrair shore, tradizionale del repertorio bluegrass americano, che muta in La tusa de Lisùn.

L’album contiene, inoltre, cinque brani originali che sono stati scelti appositamente per mantenere una consonanza con quelli tradotti dall’inglese. Raccontano piccole storie in bilico tra l’autobiografico e l’invenzione “con un occhio sempre al micro per stare alla larga dalle facili retoriche del macro”. “Direi – spiega l’artista – che questa è sempre stata la mia attitudine, sulla scia dei grandi maestri del passato. Sono storie periferiche, narrate da personaggi orgogliosamente perdenti e capaci di raccontare la loro realtà con una buona dose di ironia e un briciolo di poesia inconsapevole, almeno apparentemente”.

Dalla nostalgia per un passato che non trova riscontro nemmeno nei luoghi della giovinezza (Un alter cafè), alla confessione di un delinquente che rivendica il diritto di poter parlare con Dio, nonostante gli errori evidenti della sua esistenza (La preghiera del làder), fino all’America raccontata da un improbabile emigrante che al bar si vanta delle sue esperienze oltre oceano, esagerando e enfatizzando la sua narrazione (America).

 

 

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