La “mattanza di Stato” nelle carceri italiane raggiunge il terrificante numero di 82 suicidi nel 2022
Durante il suo discorso d’insediamento alla Camera, Meloni si è così espressa sulla questione suicidi nelle carceri in Italia:
“Queste morti sono indegne di un Paese civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”.
Vedremo nel lungo periodo quali saranno le soluzioni adottate dal Governo. Nel frattempo si continua a morire di carcere, e sale il numero degli internati che si suicidano: si tratta per lo più persone fragili e sole.
L’ottantaduesima vittima di suicidio di quest’anno che volge al termine era un ragazzo di origini bengalesi, aveva 30 anni e si trovava a Rebibbia. A luglio avrebbe finito di scontare la sua pena (una condanna a meno di due anni per concorso in rapina, per la quale tra l’altro è possibile chiedere una pena alternativa al carcere), ma le guardie carcerarie lo hanno trovato impiccato con un lenzuolo.
Il segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo ha così commentato la vicenda:
“Il suicidio a Rebibbia squarcia il velo del clima solo ritualmente natalizio per ristabilire il clima vero della ‘mattanza di Stato’ che raggiunge il terrificante numero di 82 suicidi dall’inizio dell’anno. Mai un numero così alto da oltre 20 anni: tra suicidi e decessi sono 195 le vittime in totale, senza sottovalutare che per un buon numero le cause sono ancora in corso di accertamento“.
I morti per suicidio nelle carceri italiane sono per lo più stranieri (37 su 82): sintomo che i reclusi extracomunitari, in tutto 12mila, subiscono, oltre che la disumanità di un sistema penitenziario malfunzionante, anche la scarsa presenza di mediatori culturali e psicologi.
- Manca dunque chi dovrebbe occuparsi della salute mentale dei detenuti, un aspetto cruciale per la prevenzione dei suicidi. Carenze che rendono ancora più instabile la già precaria salute mentale di chi è in carcere. […] Un quinto dei carcerati assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, mentre quasi quattro su dieci fanno uso regolare di sedativi o ipnotici. (L’Essenziale)
Ci si chiede che metodi usino i detenuti per attuare il suicidio. Stando sempre a quanto riportato da L’Essenziale in un articolo del 2 novembre scorso, se è vero che il 2022 sarà l’anno con più suicidi nelle carceri, la maggior dei morti per suicidio si è impiccata; pochi invece si sono tolti la vita con il gas o tagliandosi le vene.
Altro dato che desta preoccupazioni è che molti dei detenuti morti suicidi sono giovani, a riprova che essi, insieme ai tossicodipendenti e a quanti hanno problemi psichici, sono i più fragili e vulnerabili.
Nelle stanze dei bottoni, nonostante i numerosi proclami e le altisonanti dichiarazioni d’intenti, ancora non si fa nulla di concreto né si adottano misure per far fronte a quella che è – oramai da tempo – una vera e propria emergenza. Sarebbe necessario, oltre che favorire percorsi alternativi alla detenzione intramuraria, soprattutto per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza, migliorare la vita all’interno degli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento, di marginalizzazione e l’assenza di speranza per il futuro.
Antigone, associazione politico-culturale “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” nata alla fine degli anni Ottanta nel solco della omonima rivista e che da oltre 20 anni è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i 190 istituti di pena italiani entrando nelle carceri con prerogative simili a quelle dei parlamentari, un anno fa aveva presentato un documento avanzando alcune proposte di riforma del regolamento penitenziario, sostenendo la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato.
Il 1 novembre scorso sempre Antigone ha pubblicato un articolo relativo al primato che è toccato al 2022 per quanto riguarda l’alto numero di suicidi avvenuti nelle carceri italiane, ricordando che il precedente drammatico primato appartiene al 2009, quando al 31 dicembre si erano registrati 72 suicidi.
- Oltre al valore in termini assoluti, l’indicatore principale per valutare l’andamento del fenomeno è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero dei casi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno. Non essendo ancora terminato il 2022 (ricordo che la pubblicazione di Antigone risale al 1 novembre 2022), possiamo oggi calcolare il tasso di suicidi solo tra il mese di gennaio e settembre, ossia a quando risale l’ultimo aggiornamento sulla popolazione detenuta. Con un numero di presenze medie pari a 54.920 detenuti e 65 decessi avvenuti in questi nove mesi, il tasso di suicidi è oggi pari circa a 13 casi ogni 10.000 persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero.
Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più. Quasi il 50% dei casi di suicidi sono poi stati commessi da persone di origine straniera. Se circa un terzo della popolazione detenuta è straniera, vediamo quindi come l’incidenza di suicidi è significativamente maggiore tra questi detenuti. Dalle poche informazioni a disposizione, sembrerebbe che circa un terzo dei casi di suicidi riguardava persone con un patologia psichiatrica, accertata o presunta, e/o una dipendenza da sostanze, alcol o farmaci.
Per Antigone è sicuramente difficile ricondurre l’accelerazione del fenomeno di questo 2022 a delle precise ragioni, ma una cosa è certa: la maggior parte dei carcerati ha alle spalle situazioni già di ampia complessità, tra marginalità sociale ed economica, disagi psichici e dipendenze. E la pandemia degli ultimi tempi non ha fatto altro che esacerbare il tutto, contribuendo in molti casi ad acuire situazioni di solitudine e sofferenza.
Ulteriore urgenza da risolvere è quella per cui a fronte di una popolazione carceraria strabordante e in costante aumento, non corrisponde un congruo numero di sorveglianti.
Appaiono poi del tutto inutili e fuori luogo le proposte di chi pensa di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario costruendo nuovi istituti di detenzione. Più che altro bisognerebbe, secondo la coordinatrice nazionale di Antigone Susanna Marietti, “ripensare le politiche penali, quelle che decidono chi finisce in carcere”.
Ma anche bisognerebbe ridefinire e migliorare le condizioni di chi in carcere ci vive: a tal proposito, ricordo la sentenza del 2013 della Corte europea dei diritti dell’uomo, che aveva condannato il comportamento dello Stato italiano proprio per le condizioni dei suoi detenuti.
«Delle celle lisce non vogliamo parlare? E delle celle di punizione dove avevate detenuti senza materassi e cuscini e dove non potevano avere penne e foglio per scrivere una lettera? E del reparto infermeria dove mettevate anche detenuti con problemi psichici nudi obbligandoli ad avere le finestre aperte? Fino al 2013 qui accadevano cose assurde». Così scriveva un detenuto a marzo 2017 in una lettera indirizzata ad Antigone.
Per chi volesse approfondire, invito a leggere e scandagliare l’ultimo rapporto (il XVIII) stilato da Antigone sulle condizioni delle carceri.
Da ultimo, riporto la lettera di un detenuto, Carmelo Musumeci, pubblicata a settembre scorso sul sito dell’associazione di promozione sociale Osservatorio sulla Repressione, il cui titolo già dice molto:
Carcere, istigazione o aiuto al suicidio.
Di solito in carcere si pensa che la morte sia a portata di mano e che in un attimo ti possa dare la libertà, la serenità e la felicità. La Morte ti libera il cuore e l’anima, mentre il carcere te li divora, fino a che non resta più traccia di un essere umano in te. Nelle vostre Patrie Galere i prigionieri fanno la gara a chi si toglie la vita per primo: già 59 quest’anno, e quasi nessuno ne parla o ne scrive. Lo faccio io che me ne intendo.
Forse molti non sanno che il metodo che normalmente usa un prigioniero per togliersi la vita è semplice: prepara una fune, che può essere presa dalla cintola di un accappatoio o dai lacci delle scarpe o direttamente strappando delle lenzuola.
Poi prepara il cappio.
E lo fa passare intorno alle sbarre della finestra.
Dopo non rimane altro che salire su uno sgabello.
Infilare il cappio in testa.
E farlo scivolare sul collo.
Poi viene la parte più semplice, perché non rimane altro che dare un calcio allo sgabello.
Il carcere suscita spesso false speranze, forse per questo ho sempre pensato che non ce l’avrei mai fatta a morire un giorno da uomo libero.
Io ci ho pensato tante volte a togliermi la vita. Molte volte ho persino preparato la fune con il cappio. E alcune volte sono arrivato persino ad infilarmelo al collo. Non sono mai riuscito però, per fortuna o per sfortuna – a seconda dei punti di vista – a dare il calcio a quel cazzo di sgabello.
Pensandoci bene credo che se ho continuato a vivere l’ho fatto solo perché non volevo far morire il mio amore con me.
Purtroppo però molti miei compagni lo fanno. Per questo mi permetto di domandare ai magistrati: Perché non intervenite con delle azioni penali? Il colpevole ce l’avete già: il carcere! Mi permetto di ricordare anche che l’articolo 580 del codice penale “ISTIGAZIONE O AIUTO AL SUICIDIO” è chiaro e non c’è bisogno neppure di essere interpretato: “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. “
Su una popolazione di circa 54.000 detenuti, con circa 38.000 agenti sotto la loro sorveglianza 24 ore su 24 (in rapporto al numero di detenuti, in Italia siamo tra i paesi con più polizia penitenziaria in Europa), non sono poche 59 persone che invece di vivere preferiscono uscire dal carcere da morti. Forse un carcere cattivo li istiga o li aiuta a farlo.
Fonte immagine in evidenza: https://www.agenzianova.com/news/carceri-rivolta-a-santa-maria-capua-vetere-la-denuncia-del-sappe/
Pubblicato il: 22/12/2022 da Skatèna